Rossini per pianoforte

L’addio di Gioachino Rossini al mondo dell’opera ha sempre destato perplessità, anche ai suoi stessi contemporanei. Dal debutto nel mondo del teatro con La cambiale di matrimonio nel 1810, Rossini consacrò alla carriera operistica i successivi diciannove anni; dopodiché, improvvisamente, dopo la prima del Guglielmo Tell nel 1829, si ritirò definitivamente dal mondo che lo rese universalmente celebre. 

Si consideri che Rossini morì nel 1868, vale a dire ben trentanove anni dopo l’addio alle scene. Da questo lasso di tempo sono emersi due fulgidi capolavori, lo Stabat Mater del 1832 e la Petite messe solennelle del 1863. Da un autore capace di comporre quaranta opere in diciannove anni non ci si può attendere la sola composizione di due lavori – seppur di indiscutibile grandezza – nell’arco di quasi quarant’anni. La domanda, una e sempre la stessa, veniva posta continuamente al Pesarese, che però dava risposte sempre diverse e più o meno evasive. A Wagner disse: «Io non compongo più perché sono giunto all’età in cui non si compone, ma si decompone»; all’amico Andrea Maffei, marito della nota Clara Maffei, disse invece: «O non lo sapete che io sono un grande infingardo? Scrivevo opere quando le melodie venivano a cercarmi e a sedurmi, ma quando capii che toccava a me andarle a cerare, nella mia qualità di “scansafatiche” rinunciai al viaggio e non volli più scrivere». Queste repliche sono tutte vergate col suo consueto sorriso che però cela implicazioni molto recondite ed estremamente complesse. Una risposta che lascia finalmente intuire uno squarcio dell’effettiva realtà delle cose è quella fornita da Rossini all’amico Max Maria von Weber; questi gli domandò, ancora una volta, perché non scrivesse più per il teatro e la disarmante risposta del Pesarese fu: «Non si parli di questo. Del resto io compongo continuamente. Vede quella scansia piena di musica? Essa è stata scritta tutta dopo il Guglielmo Tell. Ma non pubblico niente, e scrivo perché non posso farne a meno».
Appurato che Rossini continuava a scrivere e, stando alle sue parole, in modo quantomeno prolifico, vien da porsi una nuova domanda: cosa scriveva? Innanzitutto va sicuramente citata la robusta sequenza di musica sacra, inni e cori, ma la sua produzione si concentra principalmente sul repertorio cameristico. Naturalmente la musica da camera non era un’esperienza nuova per lui, che nel 1804 aveva composto quei gioielli delle Sei sonate a quattro, ma negli anni del ritiro questa assunse una nuova forma, quella del salotto. Questa dimensione fu “sperimentata” da Rossini inizialmente durante il soggiorno bolognese e quello fiorentino fino a esser canonizzata nel suo definitivo soggiorno parigino, una dimensione che ci viene testimoniata da due importanti raccolte: le Soirées musicales e soprattutto i Péchés de vieillesse.

Josef Danhauser, Liszt al pianoforte (1840). In questo ritratto di una delle celebri soirées musicales nel salotto di Rossini si riconoscono: (da sinistra) seduti Alexandre Dumas, George Sand, Franz Liszt e Marie d’Agoult, in piedi Vincenzo Bellini, Niccolò Paganini e Gioachino Rossini.

Il nome delle Soirées musicales indica con precisione la destinazione di queste brevi composizioni, ovvero le serate musicali regolarmente indette da Rossini e ospitate nel proprio salotto. A queste soirées partecipavano anche appassionati di musica o semplici curiosi, ma principalmente erano rivolte ai vecchi amici, ai collaboratori di lunga data. Si tratta quindi di pagine in puro stile salottiero, pensate non per il pubblico ma per quella selezionatissima cerchia di anime fedeli, vergate con umorismo, certo, ma anche con sottile spirito caustico, di ironia caricaturale per la pretenziosa musica dell’epoca e soprattutto da continua sperimentazione. 
Questi connotati si ritrovano in maniera ancor più radicata nella vastissima raccolta dei Péchés de vieillesse («peccati di vecchiaia»), centocinquanta brani vocali e pianistici ordinati in quattordici poderosi album. Di questa raccolta ciò che, naturalmente, attira maggiormente l’interesse è proprio l’ampio repertorio riservato al pianoforte solo: con questo non si vuole certamente porre in secondo piano la parte vocale, ma quest’ultima è un qualcosa di già udito della penna di Rossini, ben diverso è il discorso per quanto concerne un vasto repertorio esclusivamente strumentale (specie se poi è pianistico). I Péchés de vieillesse sono l’unico grande esempio di pianismo rossiniano pervenutoci, un’avventura musicale nata all’interno delle mura del salotto del Pesarese e che egli stesso volle confinare entro quelle mura, ma di un’importanza tale che ancor’oggi spesso non viene colta.
Come sottolinea, giustamente, il musicologo Piero Rattalino nel suo breve saggio Il pianismo di Rossini: ultima ironia, «i pezzi per pianoforte e, più in generale, tutta la tarda produzione di Rossini rappresentano un annoso problema critico. […] Un solo lavoro dell’ultimo periodo, la Petite Messe solennelle, viene eseguito, è conosciuto dal pubblico, è giudicato dalla critica un capolavoro, mentre quasi tutti gli altri, e tra questi le pagine pianistiche, non superano mai il livello della curiosità e della sporadica riproposta. […] Sia le non numerose esecuzioni, sia gli studi critici si sono finora indirizzati di preferenza verso gli aspetti umoristici o grotteschi della produzione di Rossini». Con queste poche frasi Rattalino mette efficacemente a fuoco il problema: come dobbiamo considerare la produzione pianistica di Rossini? 

Programma della Soirée dell’1 Marzo 1867

Se si scorre pazientemente il catalogo dei Péchés, se ne trarrà la superficiale impressione che si tratti di brani composti in un’ottica fortemente ironica, se non persino comica. Anche in quest’ultima fase della propria vita Rossini non rinuncia alla sua caratteristica ambiguità, in cui il sorriso e l’ammiccamento non esistono autonomamente ma celano sempre qualcosa d’altro. Ci si fa trarre in inganno dal delicato umorismo descrittivo di Un petit train del plaisir, dal gesto delle corna nel Petit Caprice (Style Offenbach) e dalla stilizzazione di una scenetta familiare – con tanto di litigio e riappacificazione – di Une caresse à ma femme. Eppure in questo grande album da disegno al pianoforte c’è molto di più che non qualche tratto umoristico.
Innanzitutto è bene fermarsi ad analizzare coscienziosamente la scrittura pianistica adottata da Rossini: la raccolta dei Péchés vide la luce nel 1857, ovvero quando si era già esaurita la parabola artistica (e biografica) di Felix Mendelssohn, Robert Schumann e Frédéric Chopin, inoltre l’universo pianistico aveva già superato la fase giovanile di Franz Liszt, quella del virtuosismo rabbioso e rivoluzionario, cionondimeno la scrittura di Rossini sembra essere quasi del tutto incurante delle innovazioni apportate dai colleghi. Il tratto del Pesarese resta piuttosto scarno, ordinato e preciso, senza tutti gli sfarfallamenti tipici del primo Romanticismo, guardando quasi esclusivamente ai classici: Domenico Scarlatti, Muzio Clementi, Franz Joseph Haynd, Wolfgang Amadeus Mozart e anche sé stesso, «l’ultimo dei classici» come ebbe a definirsi. Non si cada però nell’erronea convinzione che Rossini avesse deciso di arroccarsi su posizioni retrograde, ignorando bellamente tutto ciò che musicalmente è avvenuto dopo il 1810.
Se non bastasse la vivacità intellettuale di Rossini ad asserirlo, i ben noti rapporti d’amicizia con molti dei grandi compositori a lui coevi costituiscono la prova incontrovertibile del fatto che egli conoscesse direttamente e davvero molto bene la musica del suo tempo e ne era costantemente aggiornato (basti pensare che ad alcune delle sue leggendarie soirées salottiere aveva invitato l’allora giovane Gabriel Fauré). Inoltre in molte pagine dei Péchés si trovano palesi ammiccamenti allo stile di Schumann, Liszt o altri ancora. Dietro all’apparente ambiguità – di nuovo! – della scelta di uno stile pianistico marcatamente classicheggiante non sta l’ottusa presa di posizione di un vecchio musicista che disprezza il nuovo, bensì costituisce un’autentica professione di fede. Rossini dimostra di essere perfettamente al corrente della direzione presa dalla “nuova musica”, ma ne prende fermamente le distanze riconoscendola come aliena alla propria concezione di musica. In altri termini, è l’affermazione – cortese ma irremovibile – della propria individualità.

Rossini rifiuta le istanze di un certo tipo di Romanticismo, tronfio e pretenzioso, senza per questo rinunciare al un proprio personale progresso, a una costante ricerca e innovazione all’interno della sua stessa musica; difatti – compositivamente parlando – l’intera raccolta è fortemente improntata alla sperimentazione, ora celata da ironia, ora resa più palese, ma sempre tanto ardita da aprire squarci su quella che sarà la musica del Novecento. L’ancora del classicismo è di certo ben salda, ma Rossini non tenta di riesumare il bel tempo andato; piuttosto fa del passato il punto cardinale della propria ricerca estetica, una ricerca in cui il passato viene non riscoperto ma reinventato, rielaborato con gli occhi della posterità.
Mentre alcuni dei grandi del Romanticismo – Berlioz in testa – si danno un gran daffare per recuperare lo stile degli antichi e ficcano gli occhi in un passato remoto di gavotte, Rossini, nell’isolamento della sua villa di Passy, compone brani da cui attingeranno generosamente i compositori neoclassici, da Stravinskij a Prokof’ev. Uno dei brani in cui l’arditezza del compositore raggiungere vette innegabili è certamente lo Spécimen de l’avenir, ultimo brano dell’Album de château in cui Rossini sembra voler tracciare una sorta di personalissima storia della musica: dallo Spécimen de l’ancien régime al Prélude pétulant-roccoco si muove fino allo Spécimen de mon temps e al Valse anti-dansante, per poi culminare col terzo ed ultimo Spécimen, quello dedicato al futuro e che sarà incluso da Francisco Hayez nel suo ritratto del Cigno di Pesaro. Nell’ultimo brano dell’Album Rossini gioca colle tonalità, muovendosi continuamente e con grazia magistrale nel territorio armonico, senza per questo rinunciare al suo ideale di musica in cui la melodia svetta incontrastata e il gusto per gli ornamenti è quasi settecentesco. Eppure, nonostante questo, la musica del Pesarese è tanto proiettata nel futuro da annunciare con una trentina d’anni d’anticipo sull’anagrafe la venuta di Prokof’ev.

Francesco Hayez, Ritratto di Gioachino Rossini (1870). A destra, particolare con l’album “Musica dell’avvenire”.

Per quanto possa apparire scontato, è bene sottolineare anche un altro aspetto: la continua ricerca rossiniana è mossa non dal desiderio di progredire ma da quello di far progredire la musica. La nuova soluzione non è ardita affinché ne tragga profitto la gloria del compositore ma perché se ne possa giovare il discorso musicale: nessuna delle sperimentazioni studiate da Rossini nei Péchés è avulsa dal contesto di una musica concreta e definita. Il discorso musicale dei brani per pianoforte è estremamente complesso e nuovamente nel segno dell’ambiguità, conteso com’è tra la (presunta) leggerezza dei titoli, alcune tendenze dichiaratamente arcaizzanti come l’uso programmatico della melodia o di certi abbellimenti e il grande balzo in avanti compiuto dalla componente armonica.
Questi brani indipendenti, i «peccati», consentono a Rossini di poter finalmente sperimentare a cuor leggero. Naturalmente la sperimentazione ha sempre fatto parte delle sue opere, in particolar modo di quelle serie (si pensi, ad esempio, al Mosè o al Guglielmo Tell), ma – vuoi per le raccomandazioni degli impresari, vuoi per il desiderio di non allontanare il proprio pubblico – in campo operistico esistevano degli effettivi limiti. I limiti però non c’erano sui tasti del suo Pleyel, dove finalmente si sente libero di addentrarsi nella ricerca armonico-ritmica. Ecco allora che, colla scusa delle Soirées musicales ha la possibilità di sottoporre questa meticolosa indagine a un pubblico selezionato e la dedica «ai pianisti di quarta categoria a cui ho l’onore di appartenere» altro non è che un ulteriore pretesto per concedersi la massima libertà agli occhi dei convenuti.
A questo punto anche la funzione dei titoli è, per così dire, smascherata: come i giullari medievali, anche Rossini impiega battute e arguzie per poter dire in libertà ciò che davvero pensa. È il caso del Prélude prétentieux e dell’Hachis romantique (letteralmente «polpettone romantico»), che fanno ben intendere il pensiero rossiniano sul Romanticismo, in special modo su quello d’oltralpe. Naturalmente si deve tenere ben presente il gusto del Pesarese per l’ironia e i parossismi (come nel caso del curioso Prélude inoffensif); l’occasione fa il ladro e le serate musicali erano un’occasione veramente ghiotta per qualche trovata di spirito. «Ho lavorato tanto – disse una sera Rossini ai convenuti – per divertire il mondo intero. Ora è tempo che mi diverta io».

La diagnosi di Rattalino è evidentemente esatta: questi brani sono solo apparentemente leggeri e pongono un serio problema di interpretazione, valutare quando si tratta di semplice disimpegno, se sia effettivamente solo un disimpegno, se tra le righe si annidasse un intento parodistico o satirico, oppure se si debba ritenere prevalente l’aspetto squisitamente sperimentale e pionieristico.
Tra i titoli polemici, le trovate argute, i brani ispirati al mondo culinario (e non sono pochi!), l’esecutore si ritrova «come nave in gran tempesta», frastornato tra i flutti dell’immaginazione rossiniana, senza contare che si tratta di brani che impongono una certa difficoltà; nessun mistero, quindi, che anche a centocinquant’anni dalla morte del loro autore i Péchés de vieillesse rimangano ancora sconosciuti a buona parte del pubblico. Come già riportato in precedenza, si tratta di composizioni che di solito compiono sporadiche apparizioni (normalmente in relazione al loro carattere giocoso) per poi ripiombare subito nel dimenticatoio. Fortunatamente negli ultimi anni la critica internazionale (e, incredibile a dirsi, persino quella italiana) ha iniziato a interessarsi a questa corposa raccolta cameristica che celebra in modo assolutamente inaspettato l’autentico genio di Rossini. Probabilmente anche il Cigno di Pesaro doveva essere a conoscenza del loro reale valore se, a cinque anni dalla morte, arrivò a dire che la tanto glorificata Petit Messe solennelle altro non era che il suo «dernier péché mortel de ma vieillesse».

lfmusica@yahoo.com

Luca Fialdini
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