1989 nasce Tuttomondo: tutti i retroscena del murale

Tutto ciò che non sappiamo di Pisa e del suo murale

PISA – Oggi tutti, politici importanti e semplici cittadini, parlano con orgoglio e ammirazione di questa grande opera. Ma trent’anni fa… fu subito amore?

Che cosa successe quando arrivò la proposta di dipingere un muro della città? Pisa, con la sua millenaria tradizione, era capace di accogliere un’opera così innovativa? Con quale criterio fu scelto il muro? C’erano altre proposte? Siamo andati a cercare Carlo Scaramuzzino  protagonista della vita cittadina e memoria storica della nostra città. Carlo Scaramuzzino, arrivato a Pisa nel 1963, dopo aver conseguito la laurea in lettere, è stato  funzionario dell’Opera Universitaria di Pisa, poi dirigente della Provincia di Pisa, professore a contratto per l’Università di Pisa e nel 1989 Assessore all’Urbanistica per il Comune di Pisa.

Carlo Scaramuzzino

Cominciamo dall’inizio. Nel 1988 il giovane pontederese Piergiorgio Castellani, in vacanza a New York incontra casualmente Keith Haring, lo saluta e gli domanda perché non ha mai lavorato in Italia. Da questo semplice e casuale incontro ha inizio quello che poi diventerà l’anno successivo il “Keith Haring progetto Italia”. Che cosa è successo esattamente in questo lasso di tempo a Pisa? Quando e come l’Amministrazione comunale è venuta a conoscenza dell’ipotesi che Keith Haring potesse venire proprio a Pisa a dipingere un murale?

«La cosa avvenne in modo semplice e lineare. Una telefonata del babbo del giovane Castellani all’assessore alla cultura Lorenzo Bani, con richiesta di incontro. All’incontro si presentò il giovane Piergiorgio. A conclusione dell’incontro l’assessore Bani si riservò di sottoporre la proposta all’attenzione della giunta, cosa che puntualmente fece».

Una volta venuti a conoscenza della possibilità di dar vita a questo progetto, che cosa è successo? All’interno dell’Amministrazione pisana, nel 1988? Keith Haring era conosciuto? Si aveva già la percezione della portata che avrebbe potuto avere questo progetto?

«La giunta – in particolare Lorenzo Bani – anche se in maniera non approfondita, sapeva delle esperienze di “graffitismo” alla metropolitana di New York, tra cui quella di Haring, di cui la stampa internazionale parlava. Il messaggio che proveniva da quei graffiti (il bisogno di risposte al malessere sociale, l’importanza dei diritti delle persone…) creava interesse, soprattutto tra le giovani generazioni. La giunta affidò a Bani l’incarico di buttar giù un piano operativo, per verificare la fattibilità del progetto. Ovviamente, in quella fase, nessuno era in grado di percepire l’importanza del progetto, una volta realizzato; resta il fatto che la giunta decise per un atto di fiducia verso le capacità artistiche e la proposta culturale di Keith Haring».

Pisa non è una città semplice, è una città piccola ma ricca di storia, ha una tradizione secolare, è stata una grande città in passato e ha dato natali importanti, quindi spesso il suo passato pesa moltissimo e la città si ritrova a volte prigioniera tra passato e presente, tra tradizione e innovazione. Come reagì l’Amministrazione, alla fine anni Ottanta di fronte all’idea di realizzare in pieno centro storico un’opera di una modernità sconvolgente?

«La discussione non fu semplice. Più che la localizzazione nel centro storico, le maggiori contrarietà – alcune anche interne alla giunta – si manifestarono circa la proposta di utilizzare la parete della chiesa di S. Antonio Abate, di proprietà del Comune. Le prime riserve vennero dalla Soprintendenza ai monumenti, rispetto alla tutela di un bene monumentale quale è la chiesa. E in tanti, in città, si accodarono alle riserve della Soprintendenza».

Questo dibattito fu solo un problema interno alle istituzioni o anche la città ne fu coinvolta? Come si riuscì a risolvere la questione, quali furono le argomentazioni vincenti?

«Ci furono anche strumentalizzazioni politiche, perché le elezioni amministrative si avvicinavano. C’erano già allora polemiche che, purtroppo, oggi hanno preso forza: incomprensione per i “diversi”, la difesa della “pisanità” contro qualsiasi forma di contaminazione. Ma la parola decisiva – che fece cadere la protesta per l’oltraggio che si sarebbe arrecato alla chiesa – fu quella del parroco di S. Antonio, un missionario brasiliano, che ben conosceva miseria e disperazione; il parroco parlò quel linguaggio che oggi molti apprezzano e che viene dalla bocca di Papa Francesco».

A questo punto rimaneva “solo” il problema di quale muro scegliere. Ci furono diverse opzioni e come avvenne la scelta?

«C’erano altre due opzioni: il muro della Scuola S. Anna – in Piazza Martiri della Libertà, da poco istituita (in pessimo stato di conservazione); e la costruzione ex novo di un muro nella zona di Pisanova, un quartiere che stava crescendo come somma di singole lottizzazioni autonome e che aveva bisogno di trovare una sua anima. Certamente la soluzione migliore era la chiesa di S. Antonio, per la sua collocazione nel percorso turistico urbano Stazione-Duomo».

Così una volta che tutto fu stabilito Keith Haring, nel 1989 arriva a Pisa. E’ giugno. Il giovane artista si trova quindi catapultato nel pieno del “giugno pisano”. Rievocazioni storiche, regate, gioco del ponte, un trionfo di pisanità, che sicuramente è stata intercettata dalla sua estrema sensibilità di artista. La città di Pisa invece come ha reagito e come ha percepito la presenza di un così grande artista in città?

«Haring trova dalla sua parte la gioventù pisana; fu questo a determinare il successo dell’iniziativa. La partecipazione giovanile proprio alla fase di costruzione del dipinto fu entusiasmante. Haring andava avanti nella preparazione della base del murale e, a seguire, i giovani completavano la colorazione».

tuttomondoI lavori durarono una settimana, le perplessità di alcuni rimasero anche a opera finita? Quali furono le reazioni e i commenti dopo l’inaugurazione?

«Bisogna ricordare che l’opera era stata realizzata in uno spiazzo usato come stazione di servizio delle Autolinee Lazzi. E in effetti, fino a quando la stazione non fu trasferita in altra sede, era difficile apprezzare quel contesto, alquanto degradato, nonostante la grande qualità dell’opera».

La città, l’Università, le scuole capitalizzarono la presenza di un artista così importante a Pisa? Furono organizzati incontri pubblici, dibattiti, lezioni aperte?

«No. O comunque, all’inizio, in modo molto marginale. Solo nell’ultimi anni è stata pienamente compresa l’importanza di pensare e realizzare un restauro conservativo del bene. Oggi l’opera è protetta; e alcuni dipartimenti universitari (Chimica, Istituto di conservazione e valorizzazione dei beni artistici) sono impegnati in un monitoraggio annuale sullo stato di conservazione del dipinto».

L’ultima domanda. Una curiosità. Ma, quali saranno stati i motivi che spinsero un giovane newyorkese all’apice del successo, richiesto in ogni parte del mondo, le cui opere (pur essendo un contemporaneo) erano già iper quotate, a scegliere proprio Pisa per lasciare la sua più importante testimonianza?

«Non sono in grado di parlare delle attrazioni che Pisa aveva esercitato su Haring. Nei pochi momenti di incontro, in Comune, era comunque possibile cogliere nel suo sguardo elementi di gioia per quanto stava realizzando, per l’insieme delle relazioni che stava costruendo. Mi sembrava convinto che, a cose fatte, la città avrebbe apprezzato il suo lavoro e che sarebbe tornato a Pisa per cogliere in pieno i frutti del suo lavoro. Purtroppo non ne ha avuto il tempo».

 

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