Scrivere su Rossini è come scrivere di un amico sempre presente nei momenti più disparati della mia vita: se da bambino ero incollato al repertorio buffo e quindi la puntina del giradischi era ormai ridotta ad un unghia scheggiata davanti alla Cenerentola della Simionato o al Barbiere di Cesare Valletti e Roberta Peters, è stato al Festival di Barga l’incontro fulminante con “l’altro” Rossini, quando feci da assistente alla regia per una riscoperta di Demetrio e Polibio.
Il titolo causò lo stupore attonito del neofita rossiniano di fronte ad una partitura composta da un ragazzino geniale, dove in nuce tutto era già scritto in modo imperativo. Da lì in poi sono innumerevoli le scorribande con vari registi, sempre nel ruolo jolly di assistente alla regia, maestro collaboratore e comparsa volontaria, e ho vissuto in diretta le preziose intuizioni musicali di una cantante/regista come Graziella Sciutti, regina assoluta nel cesello dei recitativi, le visioni romantiche di Pierluigi Samaritani che con Massimo de Bernart diede vita ad un memorabile Guglielmo Tell con i giovanissimi Merritt e Scandiuzzi, e da giovane pianista appena diplomato a Napoli, fui testimone delle spettacolari interpretazioni del pianismo rossiniano di Aldo Ciccolini. Quando poi è iniziata la attività registica è sempre stata una grande gioia lavorare su Cenerentola, Italiana in Algeri e Turco in Italia, mentre il Barbiere di Siviglia – che ebbi l’onore di fare con Abbado e che è stato rappresentato in tutto il mondo dal 1994 al 2011 – mi ha sempre messo un’ansia indicibile, come se fra me e questo titolo non corresse buon sangue, ma succede spesso che sono proprio le partiture meno amate o più ostiche ad avere miglior fortuna.
È pure vero che cercare la comicità nella leggerezza, ovvero nella grazia, è la cosa più difficile per un regista e più che mai con il Rossini comico, cosi cartesiano nelle sue architetture formali, cosi lucido nella geometria astratta delle sue combinazioni matematiche. Poi nel comico rossininano è il gioco di squadra che vince, ed è come lavorare sui meccanismi di un orologio svizzero, se la più infinitesimale rotella non funziona, tutto va a rotoli: provate poi a chiedere all’interprete di Almaviva con quanti biglietti ha a che fare nel corso dell’opera, che cosa c’è scritto in essi e che percorsi fanno questi biglietti da una mano all’altra, vedrete tenori sbiancare, impallidire, farfugliare cose strane su liste di lavanderia e permessi di soggiorno fino alla bandiera bianca finale, dove crollano miseramente di fronte all’implacabile interrogatorio del regista (sempre che questi sappia veramente la trama del Barbiere, una delle più complicate del mondo insieme alle Nozze di Figaro).
Tutt’altra atmosfera ho vissuto quando si è trattato di confrontarmi con il Rossini serio, dove le partiture sono più ”avveniristiche” e coraggiose rispetto alle comiche e smettiamo una volta per sempre con la visione di allegro bonaccione bon vivant che ancora decrepite interpretazioni spacciano come unica verità per descrivere il Cigno di Pesaro: mai compositore fu in realtà più ambiguo, nevrotico, capace di cogliere il senso più inaccessibile del tragico (l’Amen dello Stabat Mater valga per tutti), moderno, visionario: per fortuna la musicologia rossiniana e per citare secondo me i tre più alti esponenti Cagli, Gossett e Quattrocchi, hanno riportato e “reinquadrato” Rossini nella sua accezione più autentica e originale, ridando fedeltà e verità dove per troppo tempo stereotipi e condizionamenti avevano cosi pesantemente svilito la forza rivoluzionaria del compositore. Ho avuto la fortuna di mettere in scena Tancredi e Semiramide le ho amate prima di tutto per la musica e per alcune affascinanti storture narrative (l’idea dell’incesto fra Semiramide e Arsace, il potere legato ad una dipendenza di natura erotica tra Semiramide e Assur).
Ma Tancredi ancora oggi mi lascia stupefatto davanti all’autentico “romanticismo” esplosivo della partitura, forse l’unica dove il tema dell’amore non conosce altri esempi collaterali, e l’amore e la solitudine non troveranno mai più nello stesso Rossini quegli accenti di patetismo, di nostalgia e di fragilità che caratterizzano lo sfortunato protagonista. Valga per tutti il cosiddetto “finale tragico” di Ferrara, per il quale troppo tempo di oblio passò prima della stupefacente riscoperta nel secolo scorso e che pose tutti di fronte alla percezione di trovarsi di fronte ad un miracolo musicale senza precedenti. Un lunghissimo arioso dove le frasi frante dell’eroe morente si alternano a pochi accordi degli archi e dove tutto si spegne nella morte discretissima e quasi timida di Tancredi, un finale senza rondeau finali, senza cori trionfali, senza ensemble di solisti, senza eclàt apparente, ma che forza evocativa, che insondabile abisso di modernità future apre quello squarcio del finale tragico di Tancredi: ancora oggi ci lascia muti perplessi e pieni di dubbi di fronte ad un compositore come Rossini che più si crede di conoscere, meno se ne comprende l’inafferrabile gigantesca grandezza.
Stefano Vizioli
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