Il ragazzo selvaggio (L’enfant sauvage, François Truffaut, 1970)
Il ragazzo selvaggio nasce nel 1970, quando la carriera di François Truffaut è già contraddistinta da alcuni dei suoi film più importanti. Ispirato alla vera storia riportata dal dottor Jean Itard nei primi anni dell’Ottocento, il film racconta il ritrovamento di un giovane ragazzino che, da sempre vissuto nei boschi dell’Aveyron, viene preso in cura dal medico parigino. Studioso della pedagogia infantile, Itard è interessato al grado d’intelligenza che possiede un essere umano privato di qualsiasi dato culturale, quindi presente in lui dalla nascita, e adotta il caso come esempio dimostrativo della possibilità di educare un individuo tanto lontano dalla civiltà. La scelta di raccontare la brutale e spietata storia del ragazzo si inserisce in un panorama cinematografico più ampio, che vede il regista affrontare spesso temi legati all’infanzia e alla crudeltà di una società adulta troppo occupata e superficiale per conservare un amore tenero e sensibile verso le delicate creature infantili.
Il piccolo Victor (nome assegnatogli dal medico) viene catturato da una civiltà curiosa e poi delusa da quella che doveva essere una bizzarra attrazione. I pochi progressi compiuti dal ragazzo che, educato dal professor Itard, impara a camminare, a vestirsi, a chiedere da bere e a riconoscere alcuni oggetti, sembrano sufficienti a dimostrare la possibilità di trasformarlo in un ragazzino civilizzato. A smentire queste labili certezze scientifiche è l’incapacità di Victor di arrendersi a un’educazione forzata, in una lotta continua con un istinto che non accenna a tacere, perennemente in ascolto della voce del bosco che continuamente lo richiama a sé.
Fin dalle prime inquadrature il ragazzo selvaggio è presentato al centro della natura, immerso in un mare di foglie e ombre in cui difficilmente si riesce a scorgere e in cui si muove nudo e agile con una grazia tipicamente infantile. La capacità di Victor di «guardare senza vedere e sentire senza ascoltare» sembra essere tutt’altro che un difetto da correggere, quanto la vera ricchezza che la civilizzazione impedisce. Il suo sguardo è sempre rivolto alla totalità del reale che si dispiega davanti a lui; sembra non guardare niente di preciso, ma guardare e basta, come in un’occhiata verso l’infinito. Solo con l’educazione che riceve giorno per giorno impara a distinguere ciò che lo circonda, sforzandosi di riconoscerlo e di dargli un nome che però non riuscirà mai a imparare. La conoscenza sembra provocare una progressiva riduzione dello sguardo che, impossibilitato a rivolgersi al tutto, si focalizza solo su un oggetto alla volta. Victor osserva il bosco dalla casa di Itard nel quadro limitante della finestra, simbolo della distanza portata dalla civiltà.
Il tema complesso che affronta il film lascia molti interrogativi nello spettatore. La scelta di girare in bianco e nero sembra essere dettata dall’universalità dell’eterno conflitto tra natura e cultura. La civilizzazione è il risultato di un progresso che porta all’abbandono dello stato animale e selvaggio dell’uomo, ma che implica dei limiti. Lo sguardo di Victor, perennemente rivolto verso l’esterno, soffocato da un’istruzione che dimentica il gioco e diventa sempre più tortura, dimostra la sofferenza di chi è costretto a essere altro da quel che è. Impossibilitato a tornare alla sua vita nei boschi, Victor è ormai compromesso da quel poco di civilizzazione che ha lasciato entrare dentro di sé. La conoscenza, che sembra essere l’unico mezzo per afferrare la realtà, genera il conflitto tra l’istinto e la regola, il desiderio e il dovere. In una condizione a metà tra l’uomo selvaggio e l’uomo civile, tenta di scappare per poi far ritorno a casa. Incapace di abbandonare il contatto con l’altro e allo stesso tempo di tradire la sua vera natura, Victor non può fare a meno di ascoltare la voce del vento e delle foglie; come un originario barone rampante, mosso dalla ribellione e dal desiderio di libertà, si rifugerà sui rami alti degli alberi e, ogni tanto, guarderà il mondo da lassù.
Erica Barbaro
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