Bboy Kacyo, storia di un ballerino fra lezioni di vita e spettacoli in strada
«Mangi pane e cipolla per risparmiare. Rischi di spezzarti le articolazioni sull’asfalto gelido. Arrivare a fine mese può rivelarsi una vera sfida: come quelle che combatti sulla pista da ballo per guadagnarti lo stipendio e il rispetto». È dura la vita del bboy di strada. Soprattutto all’inizio, quando capiti in una regione che non è la tua, senza un lavoro e nessuna garanzia di successo, cercando di mettere a frutto un talento anticonvenzionale.
Così la racconta Giuseppe Di Mauro, in arte Kacyo, ballerino siciliano di breakdance dal 2000 e oggi fra i maggiori esponenti di questa danza urbana caratterizzata da spettacolari acrobazie.
«Una vita di sacrifici, ma anche di grandi soddisfazioni» la definisce al termine di un’esibizione, asciugando il sudore dopo l’ennesima giornata trascorsa a sovvertire le leggi della gravità. «Fatica necessaria, se vuoi mantenere alto il livello, tenere testa agli sfidanti. Continuare a “rappresentare”, si dice in gergo. Cioè restare sulla scena per far valere il tuo nome».
Negli ultimi anni Giuseppe ha rappresentato l’Italia in prestigiose competizioni internazionali. Nel 2014 si è aggiudicato il Battle Of The Year e il Red Bull BC One, diventando così uno dei bboys più stimati della nazione. Dedicando il suo tempo all’espressione di quella che può a tutti gli effetti essere considerata una cultura, Kacyo ha creato a Roma una base creativa nel quartiere Pietralata.
«Si va a tempo al ritmo di funk, breakbeats e rap, saltando su un braccio, spazzando aria e pavimento in rapide rotazioni, sul dorso o in verticale sulla testa» racconta. «E tutto per istinto. Per la felicità, la libertà che l’atto concede a chi lo pratica, mettendo in condizione di trasmettere ad altri quell’energia positiva».
La passione che gli avrebbe scombinato la vita Giuseppe l’ha incontrata a Palermo, appena adolescente. Erano i tempi del liceo. Qualcuno gli mette fra le mani una bomboletta spray e così scopre il writing. Grazie a un cugino rapper capisce che l’Hip-Hop non è un genere musicale, ma l’insieme di quattro discipline. Fra tutte è il breaking, quel ballo pazzesco che ribalta, a stregarlo.
«Ben presto mi sono reso conto che era necessario viaggiare, confrontarmi con altre crews. Andavo a Firenze, per incontrare i Republic Square, o a Treviso, per vedere i Fight Club. Era un’ossessione. Sono bocciato due volte e non ho finito il liceo».
Nel 2008 Giuseppe abbandona studi e famiglia per lanciarsi nell’undeground romano, dove fonda i De Klan, una delle crew più competitive in Italia, e B-students, community a metà fra la scuola di ballo e il centro di aggregazione, aperta a settembre dell’anno scorso in via Nomentana, nel quartiere Talenti, ora spostata in via di Pietralata, nell’omonimo quartiere. Qua tiene lezioni, ospita artisti e organizza conferenze. Ma soprattutto vive «facendo cappello». Ovvero esibendosi in street-shows.
«Ci si sveglia presto – racconta – si consuma una colazione a base di frutta e poi potenziamento fisico, che sarà ripetuto in serata. Un pranzo equilibrato, quanto basta a ricaricare il corpo senza appesantirlo». Quindi l’esibizione in strada, culmine della giornata: «Il momento che ripaga di tanti sforzi, forse più di qualsiasi vittoria». Non è solo una questione di soldi. Il contatto con la gente, la capacità di strappare sorrisi sono le cose che più motivano Kacyo e i De Klan a scendere in via del Corso o in Piazza Navona, a intrattenere il pubblico.
«Gli spettacoli dal vivo sono il nostro ambiente naturale, ci sfoghiamo e condividiamo con estranei la gioia del ballo, e il fatto di offrire cinque minuti di leggerezza dà senso a un’intera giornata di sforzi». Non è stato sempre così facile: «Come artista di strada ho dovuto confrontarmi con vigili e altri gruppi che si contendono le tue zone. È necessario capire quando e dove puoi esibirti senza infrangere le regole o incappare in rischi maggiori».
E poi ci sono le intemperie: «A volte devi scendere in strada anche d’inverno, patire il freddo. Ci vuole una motivazione enorme. Oggi va meglio, alcuni titoli mi hanno garantito notorietà, vengo chiamato spesso come giudice o a fare workshop. Resta un mestiere incerto, difficile, specie se non hai alternative».
Una carriera la si può costruire solo su fondamenta salde. Vale a dire anni di studio. «La breakdance non è uno sport correttivo, bisogna stare attenti. Il consiglio che do sempre è quello di individuare gli esponenti più navigati e apprendere i passi base. Come il top-rocking, il ballo in piedi, uno dei momenti più musicali. Dopo vengono le moves, le acrobazie sfrenate, o i freeze, le posizioni di “chiusura”, che richiedono forza ed equilibrio». E i rischi? «L’unico è quello di esagerare. Credo che il breaking sia molto meno rischioso di quanto appaia».
Dietro all’esibizionismo c’è il lato B. Quello che non ti aspetti, e che qualcuno definisce filosofico: «È un mondo e bisogna entrarci dentro per decifrarlo. Quando accade, cominci a vedere un senso in ciò che fai: è un potente mezzo per definire la tua vita e quella degli altri».
Un modo per stare insieme, insomma, e riappropriarsi degli spazi, gettando i presupposti per una convivenza pacifica. Giuseppe ci prova ogni giorno, dal lunedì al giovedì, nella sua B-students: «Sfrutto il potere socializzante del ballo per innescare discussioni, spingo i miei allievi a viaggiare e a confrontarsi, presentando ballerini di altre nazionalità. E consiglio loro di completare gli studi».
A B-students non si impara solo il breaking. Ci sono anche corsi per dj, yoga e inglese. Quest’ultimo è particolarmente importante data internazionalità del ballo, che ha radici statunitensi: «Lo si insegna di pari passo al ballo, evidenziando i punti di contatto fra la lingua e la disciplina che si pratica. Ogni lunedì se ne occupa Riccardo Giannini, noto anche come Kiff. Poi abbiamo corsi di beatmaking, cioè di produzione basi musicali per djs, tenuti da Mike Vodka detto Breakstarr, membro di spicco di una delle crew più conosciute e attive in Campania, la Tck».
«La breakdance mi ha insegnato a vivere alla giornata – conclude Kacyo – ma anche a costruire un percorso personale. Per questo ho deciso di aprire una scuola, coinvolgendo amici e conoscenti con cui condivido la passione: per fornire alle giovani leve alcune chiavi per il mondo, sperando ne facciano buon uso».
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