Centochiodi (Ermanno Olmi, 2007)
Sacro come mostro sacro vivente del cinema italiano. Sacro come il sapere polveroso racchiuso negli antichi tomi che il protagonista inchioda sul pavimento e sui tavoli di un’antica biblioteca dell’Università di Bologna. Ermanno Olmi presentò Centochiodi nel 2007 come suo film testamento, o meglio come addio al cinema di finzione. Per quanto poi il maestro si sia smentito negli anni a venire con opere successive, questo film porta dentro di sé le “ultime volontà” dell’autore in ambito di spiritualità, di ruolo della religione e dell’uomo di religione.
Raz Degan interpreta la parte di un giovane professore di filosofia delle religioni avviato verso i voti sacerdotali. Al termine dell’anno accademico egli decide di abbandonare tutto compiendo un gesto estremo: armato di chiodi e martello trafigge gli incunaboli della biblioteca di dipartimento. Una volta andato a vivere in un rudere sulle rive del Po all’insegna di un esistenza semplice e alla ricerca della pace interiore, diventerà un punto di riferimento per la piccola comunità che vive nei pressi del fiume.
Il motivo del film, il liberarsi degli oggetti, delle abitudini e degli agi della propria quotidianità, è cosa vista e rivista. L’originalità del soggetto e della metafora sulla figura del Gesù Cristo non sta tanto nel proporre soluzioni innovative all’interno della storia quanto nel ritorno alle origini. Origini intese dal punto di vista cristiano dell’individuo e del suo ruolo all’interno della comunità. Il protagonista evade dalla prigione all’interno della quale dice di aver vissuto. Un uomo destinato probabilmente ai voti sacerdotali, un uomo dalla vocazione cristiana e dalla grande cultura che, intiepidito dalla freddezza e dall’austerità di antichi saperi custoditi in oscure biblioteche, decide di stigmatizzare tutto ciò. Come se il sapere sacro, sapere a posteriori rispetto all’oggetto di studio, determinasse per il giovane professore l’impotenza dell’intento originale. Così nasce il gesto di profanazione di un vero e proprio tempio del sacro, all’insegna dell’idea che tutti questi libri amanti del buio siano inutili a salvare il mondo. Una profanazione praticata con gli stessi chiodi che duemila anni prima trafissero il Salvatore. La figura fisica della persona di Gesù nell’immaginario collettivo lascia ben poco spazio alla fantasia, anche sotto questo aspetto la grande metafora del film è sostenuta dalle caratteristiche del protagonista. Così il film finisce come inizia, per quanto ci siano dei piccoli spazi aperti, il finale è abbastanza chiamato e le possibilità narrative dell’uomo in crisi sono quasi totalmente soppiantate dalla figura vista e rivista del salvatore. Le conferme che lo spettatore riceve da questo punto di vista rischiano di affievolire l’effetto del film, sarebbe stata interessante un’evoluzione della storia “non da Gesù Cristo”, in modo da dissacrare tutto ciò che ci si può aspettare da un personaggio del genere.
Il regista spesso preferisce rinunciare alla naturalezza dei dialoghi utilizzando citazioni o espressioni artificiose che rivelano forse la volontà di manifestare chiaramente un pensiero e si adattano al carattere e alla figura salvifica del protagonista. Se vogliamo il film stesso è un abito cucito su misura di frasi che per forza dovevano essere presenti. “Ma i libri – pur necessari… – non parlano da soli”, “C’è più verità in una carezza che in tutte le pagine di questi libri” oppure “Tutti i libri nel mondo non valgono il caffè con un amico” sono alcune delle citazioni per le quali il maestro Olmi ha tessuto la storia e da sole basterebbero a rappresentare il senso dell’intero film. Interessante è il progetto fotografico dietro al film, curato dal figlio del regista, Fabio Olmi, che ci restituisce un fiume Po pacato, quasi mistico, messo in pericolo dalla cementificazione e dai nuovi tempi. Tutto questo in una fotografia molto naturale, che rapisce negli scorci scintillanti delle acque del fiume e nelle luci di una barca di passaggio nella notte.
Leo D’Arrigo
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