Racconti di una staffetta di solidarietà
di Rojava Calling
“Il varco è aperto e c’è lo spazio per entrare. Entriamo tutti uno dopo l’altro. I militari scendono e urlano in turco. Noi restiamo schiacciati a terra per un tempo che ci pare interminabile. Abbiamo i fucili puntati addosso, vicinissimi. Ci sentiamo poco tra noi. Non ci troviamo. Lentamente e strisciando sul terreno ci allontaniamo da quel maledetto filo spinato e ci contiamo. Una di noi è ferita al dito. Abbiamo il fiatone e i pantaloni rotti. Aspettiamo seduti per terra ancora qualche istante fino a che non compare il combattente venuto ad accoglierci e che con uno di quei sorrisi curdi che abbiamo imparato a conoscere a Suruç ci dà il benvenuto in Rojava”.
Dal 25 Gennaio 2015 Kobane è stata liberata dalla minaccia dell’Isis, dopo 134 giorni di battaglie incessanti, durante i quali Ypg (unità di protezione del popolo curdo formata da uomini e donne) e Ypj (unità di protezione del popolo curdo formata solo da donne) hanno combattuto duramente riconquistando metro dopo metro la propria terra.
Centinaia di profughi sono stati accolti nelle zone limitrofe e sostentati dal popolo curdo, mentre la Turchia ha reso ostico ogni tentativo di raggiungere i campi profughi per portare aiuti umanitari e militari.
Per questo è nata una staffetta internazionale di aiuti per il popolo curdo, il Rojava calling (Comunità Rojava Calling), da cui è poi scaturito un libro, “Kobane, diario di una resistenza” (edizione Alegre), una raccolta di testimonianze in forma di diario degli italiani che come volontari si sono recati sul fronte di guerra per apportare il proprio supporto. Il libro contiene decine di racconti di esperienze vissute sul confine turco-siriano ed è introdotto da una prefazione di Zerocalcare, anche lui partito volontario per dare il suo aiuto.
Ma perché proprio Kobane? I curdi sono un popolo da sempre diviso in quattro stati principali, Iran, Siria, Turchia e Iraq. Dal 2011 i curdi siriani hanno rivendicato una regione fra questi quattro stati, il Rojava, nella quale è stato proclamato il confederalismo democratico, un sistema di autogoverno che non può che colpirci per i principi di libertà e di reale democrazia che vigono al suo interno: il potere è affidato al popolo, ogni carica politica e sociale ha sia un rappresentante di genere femminile che uno di genere maschile, vige la libertà di espressione e di credo religioso e un’attenzione fondamentale all’ambiente. L’Isis è arrivato a conquistare grande parte di questa regione, ma la sua avanzata è stata arrestata proprio a Kobane.
Ora Kobane è poco più di un cumulo di macerie, ma è finalmente libera e su quelle macerie si può ricominciare a costruire. Se è vero che l’Isis continua ad occupare e a conquistare i territori intorno a Kobane, è anche vero che la liberazione della cittadina è una prima vittoria importante che non può che accendere la speranza di coloro che stanno sacrificando la propria vita per questa battaglia contro un nemico che dovrebbe essere non solo il loro, ma dell’umanità intera.
A pochi giorni dalla giornata della memoria (27 gennaio), ci domandiamo se gli errori umani non siano destinati a ripetersi inevitabilmente. Non può non saltare agli occhi un’affinità fra il popolo italiano e quello turco, che condividono una storia per noi ormai appartenente al passato fatta di tentativi di liberazione dal dominio straniero e fascista. L’Isis rappresenta il fascismo islamico, vestito dei mezzi di distruzione moderni, in grado di operare non solo intorno a sé ma anche nei posti e nei momenti più imprevedibili. Il fascismo islamico non è solamente una minaccia per il popolo curdo, ma per tutto il mondo, mentre il livello di informazione dei media sulla questione curda è sempre ovattato da un velo impalpabile ma onnipresente, anzi il Pkk (partito dei lavoratori del Kurdistan di Abdullah Öcalan) è annoverato fra le organizzazioni terroristiche al pari dello Stato Islamico che esso stesso combatte.
Abbiamo avuto l’opportunità di conoscere e intervistare Marco Sandi, esperto di Antropologia del Medio Oriente e attivista del Laboratorio Occupato Morion di Venezia, che ha partecipato alla staffetta di volontariato e si è spinto fino al confine turco-siriano, entrando nella stessa Kobane dopo la sua liberazione, e ritornadovi successivamente per documentare l’assedio delle altre città curde e le elezioni del primo novembre.
Perché Kobane è così importante?
Kobane secondo me ha un duplice significato: uno simbolico e uno militare. Partendo da quello militare Kobane è l’unica città che ha saputo resistere all’impeto distruttore dello Stato Islamico nel suo momento di massima espansione e forza militare; ha resistito quando nessuno lo credeva possibile e soprattutto lo ha fatto senza l’aiuto di bombardamenti e di armamenti sofisticati. Ha resistito soprattutto grazie alla forza d’animo e di volontà delle centinaia di uomini e donne che hanno difeso le loro case e le loro famiglie. Questa vittoria militare ci porta alla seconda “importanza”, ovvero che la rottura dell’assedio e la presa di coscienza dei curdi di potercela fare contro un nemico meglio armato ha fatto sì che i curdi di tutto il mondo, ma soprattutto coloro che vivono in regimi oppressivi come in Turchia, Siria, Iran e Iraq, potessero finalmente alzare la testa e chiedere diritti e autonomia. Insomma è stata una presa di coscienza della propria forza, una vittoria militare che ha dato forza morale.”
Secondo te a cosa può portare la liberazione di Kobane e la resistenza del popolo curdo?
La vittoria di Kobane appunto fa prendere coscienza a tutti i curdi che si può vincere anche contro un nemico meglio armato, supportato internazionalmente e molto aggressivo. La presa di coscienza è senza dubbio supportata politicamente. E’ vero sì che combattono e resistono per le loro case, ma lo fanno consapevoli che hanno le spalle coperte da un’ideologia, il confederalismo democratico, che ne giustifica i fini e i mezzi. Combattere per la democrazia e per i diritti delle donne da’ sicuramente una spinta in più. Sicuramente le vittorie in Rojava danno coraggio e morale ai curdi, soprattutto se si pensa che uno degli slogan che vengono scritti sui muri delle città curde in Turchia è: “Se voi fate come l’Isis, noi faremo come Kobane”.”
Ti sei trovato a contatto di uomini e donne curdi, davanti a membri dell’Ypg e dell’Ypj, da te già definiti come i partigiani del nostro tempo. Uomini e donne italiani in questi mesi hanno portato loro sostegno e solidarietà. Secondo te cosa potrebbe fare l’occidente per sostenere maggiormente il popolo curdo e impedire l’avanzata dello stato islamico?
Su questa domanda sarò poco diplomatico. Innanzitutto per sostenere il popolo curdo bisogna smettere di sostenere Erdogan e il governo dell’Akp in Turchia. Attraverso GlobalProject.info siamo stati tra i primi a denunciare le complicità della Turchia con lo Stato Islamico e per sostenere i curdi e la loro rivoluzione in Rojava è necessario non essere più amici della Turchia e smetterla di firmare accordi commerciali, essendo poi la stessa Turchia il principale alleato dello Stato Islamico nella regione si risponde anche alla seconda parte della domanda e cioè come sia possibilefermare l’avanzata dello stato islamico.”
Dalle testimonianze raccolte in “Kobane, diario di una resistenza”, si evince che il ruolo delle donne è stato e continua ad essere cruciale per il popolo curdo. Cos’è che ti ha colpito delle donne curde?
Il ruolo delle donne curde non è solo di immagine. Certo loro sono l’immagine della Rojava ma di fatto il loro è un ruolo cruciale, sia nell’organizzazione militare sia per il ruolo che hanno nella società. La forza delle donne curde è impressionante, nonostante abbiano subito di tutto, sono loro la spina dorsale della società.”
La Carta del contratto sociale, alla base del confederalismo democratico in Rojava, si presenta come una vera e propria innovazione anche e soprattutto per le forme di governo occidentali. Credi che questo spaventi gli Stati Nazione occidentali?
Il progetto del Confederalismo Democratico è rivoluzionario nella sua teoria soprattutto per il Medio Oriente di ora. Ovvio che rappresenta un pericolo per gli stati nazione perché teorizza l’autonomia senza Stato. Su questa domanda non mi dilungo troppo perché entrerei in un campo che non è proprio il mio. Ritengo questo esperimento molto interessante ed un passo fondamentale per il medio oriente.”
Maria Cristina Impagniatiello
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