Virgin Prunes, tra eversione e follia

If I die, I die (1982)

Se muoio? Muoio! Le follie irlandesi dei Virgin Prunes

ifidie

Parlando di follia non ho potuto fare a meno di pensare ai matti irlandesi per eccellenza: i Virgin Prunes. In questo articolo vi racconterò un po’ di storia del gruppo e vi proporrò il loro album più conosciuto, If I die I die. Cominciamo.

LA STORIA: I Virgin Prunes (nome che significa “puri derelitti” in slang irlandese) nacquero a Dublino nel 1977 all’interno di una comune artistica giovanissima con sede a Cedarwood Street, il Lypton Village, creata da Fionan Harvey, Paul Hewson (futuro Bono Vox) e Derek Rowen. Inizialmente il gruppo si caratterizzò come gruppo performativo e teatrale per dedicarsi alla musica solo in un secondo momento, quando vi entrarono a far parte il giovane chitarrista Dick Evans (fratello del futuro Edge degli U2), Dave-id Busaras Scott (vocalist), Strongman (bassista) e Pad (batterista), mentre Derek e Fionan adottarono nomi d’arte quali Gavin Friday e Guggy Q.
La comunità artistica del Lypton Village rispondeva alle necessità di creare un mondo diverso, fatto di caos, paranoie adolescenziali, fantasie, stranezze fuori da ogni schema che la società proponeva e provocazioni, un mondo che riuscisse a distruggere il silenzio e il grigiore di Dublino (il dull day come diranno gli U2 in Another Day), una città intrappolata nella crisi economica, nella disoccupazione, nelle tensioni religiose con il Nord dell’Irlanda e nell’eccessivo moralismo cristiano che soffocava la sessualità dei giovani.
I Virgin Prunes partirono proprio da qui: volevano sfuggire ad un destino preimpostato e privo di libertà, e riposero la loro speranza nel potere eversivo e provocatorio della musica che, grazie all’esempio del grande Duca Bianco, aveva già dato i suoi frutti di rottura e creatività. Gavin era estremamente convinto di questo concetto e soprattutto dell’aspetto rivoluzionario della musica che denunciava un mondo chiuso al cambiamento: “Vorrei essere un ragno e scappare su Marte… All’epoca eravamo veramente arrabbiati” era una frase che spesso Gavin ripeteva prendendo come esempio Ziggy Stardust, l’alieno portatore di un nuovo verbo irreligioso.
Diciamo che l’aspetto eversivo della musica i Virgin Prunes lo presero proprio alla lettera e in maniera decisamente fisica. I loro primi lavori erano delle performances estreme, fastidiose e spesso criticate come disgustose che nascevano come ribaltamento degli immaginari religiosi tradizionali; i componenti del gruppo si professavano portatori di un nuovo credo, una nuova “religiosità”, istintività primitiva che se da una parte rifiutava il cattolicesimo, dall’altra rimandava alla ricerca di un nuovo culto, un qualcosa di interiore e privato ma non mediato dalla razionalità. Sin dai primi loro lavori i Virgin si dichiararono primitivi pagani e cercarono di calcare su questi aspetti della ritualità diversa da quella tradizionale: tra i loro obiettivi vi era quello di generare straniamento nel pubblico, creare paradigmi non canonici di estetica, musica e attitudine, in sostanza essere ambigui sessualmente come Bowie, brutti e scandalosi come Hermann Nitsch, patologici e paladini del malato, della follia alla Artaud e dell’assurdo patologico. Coerentemente infatti Gavin diceva: “Volevo essere come Bowie ma in realtà assomigliavo più a Rasputin”. I Virgin Prunes si sentivano dei rifiutati perchè non volevano far parte del mondo canonico dublinese, non volevano indossare la cravatta o fare il servizio militare, anzi, volevano essere proprio rifiutati da quel mondo che odiavano.
Sin dai primi concerti la loro estetica era quella che poi negli anni 90 sarà traslata nell’uncanny, cioè il perturbante freudiano portato, nel caso della band, ai massimi livelli di oscenità: il loro motto suonava più o meno così

La Bestia è bella, e solo perché una cosa non è piacevole da vedere non significa che essa non sia brutta da ascoltare, e tutto questo non è altro che il proclamare una nuova forma di bellezza, A new form of Beauty.

Gavin Friday

Tanto per fare un esempio… Durante una loro esibizione del 1980 i paladini della nuova bellezza indossarono perizoma con teste di maiale fissate al cavallo; gran parte della performance consisteva in un lungo silenzio interrotto ogni tanto da un grosso palo che sbatteva sul palco, mentre in altre occasioni dedicarono più spazio alla simulazione live di rapporti di sesso orale. Altre volte riuscirono a portare la loro musica frastornante all’interno di gallerie d’arte dove memorabile fu l’istallazione di pezzi di carne di vitello che prendevano la forma di vagine umane… Sotto gli occhi di un pubblico disgustato e inorridito, tra la puzza della carne cruda e l’odore del sangue fresco. Spesso si presentavano sul palco vestiti con biancheria femminile coccolando e cullando bambole di pezza o menichini alla luce di candele consumate, atmosfera degna di un film di Bela Lugosi. La nuova Bellezza si ispirava in particolare alle performances di Yoko Ono e al teatro di Artaud, richiamando il teatro dell’americano Robert Wilson che lavorava con i bambini autistici, l’Azionismo viennese e l’Odin Teatret.

GLI ESORDI MUSICALI: I primi lavori musicali dei Virgin Prunes come gli ep Heresie e A New Form Of Beauty mettevano in atto tutta questa filosofia che inizialmente era stata espressa attraverso performances: brani fatti di fracasso, grida e nenie logoranti, lamenti e testi che affrontavano tematiche spinose come la pedofilia, la solitudine dei depressi, la deformità fisica, l’esclusione del malato di mente dalla società, l’infanzia senza amore genitoriale e il ritardo mentale (alcuni membri della band frequentavano gli ospedali psichiatrici per venire a diretto contatto con i pazienti e da lì estrapolavano tutto ciò che serviva per creare i loro brani immedesimandosi nella malattia mentale; inoltre il vocalist/urlatore Dave-id era stato scelto appositamente poiché dopo aver contratto la meningite da bambino evidenziava un particolare ritardo mentale). L’ossessione per la follia, le grida e i versi e i rumori sconnessi in stile Qualcuno volò sul nido del cuculo erano il biglietto da visita di questa “psichiatrica” band. Nessuno di loro voleva dare l’impressione di essere normale. La normalità non era di certo portatrice o canone di bellezza. Con If I die I die, prodotto da Colin Newman dei Wire nel 1982, la band unisce tutta la sua violenza musicale riproponendola come una vittoria dell’uomo primitivo fatto d’istinto, emozioni interiori roventi e inspiegabili, un neo-modernismo sulla scia del movimento post punk che stava riportando in vita tutte le estetiche delle avanguardie del primo ‘900, in primo luogo il modernismo del Bauhaus e l’espressionismo tedesco con primitivismi annessi.

pagan prunes

L’album si apre con un pezzo alchemico e primordiale: Ulakanakulot. Il termine è una specie di supercalifragilistichespiralidoso dark, non vuol dire nulla, è solo un nome inventato dalla band che descrive un mondo fantastico da dove arriva gente “bellissima”, un mondo fatto di gioia e libertà. Il secondo pezzo, una nenia funerea, Decline And Fall, è l’inno del disco e l’esempio di ciò che la mente umana può fare se sottoposta a ritmi folli. Il brano infatti venne registrato in tre giorni in cui la band non dormì mai. Il pezzo è una ricerca di speranze che si possono trovare solamente nei sogni, portato avanti da un basso martellante e protagonista, viene affiancato da whistle e bohdran che ci introducono ad un rituale pagano dentro un incubo dove la natura selvaggia regna sovrana. In stile del canto pagano celtico Sean Nòs è il terzo brano, Sweethome Under White Clouds, dove si continua a cantare di un sentimento comunitario che unisce tutti i primitivi moderni, mentre sonorità wave e collage alla Cabaret Voltaire conducono al pezzo centrale dell’album, Pagan Lovesong. Questo ultimo brano citato è quello che ha portato i Virgin Prunes nelle playlist delle serate dark insieme ai Siouxsie, Pere Ubu, Bauhaus, Christian Death, essendo quello più melodico e ballabile e che meglio esprime la loro poetica. Baby Turns Blue, Ballad Of The Man (parodia delle ballad americane alla Springsteen) e Caucasian Walk sono altre perle di questo lavoro, in particolare l’ultima che meglio dipinge la follia che caratterizzava la band: il frontman del gruppo non è più un punto di riferimento ma un pazzo che si è dimenticato le parole della canzone: “Like a crazy singer in a band that lost the words”. Pezzo epilettico che assomiglia ad una marcia militare che assume adesso connotati squallidi, queer e antieroici. Il disco si chiude con un’angosciante Theme For Thought che continua a denunciare tutte le costrizioni comportamentali che la gioventù dublinese aveva subito, (Why should I be like you? Nothing is ever the way you say it is, Nothing is ever the way you want it, So don’t talk to me, Don’t look at me, But please stay with me), includendo un passaggio di Oscar Wilde dalla Ballad of Reading Gaol, scritta dal poeta durante la sua detenzione in carcere per omosessualità.

Vi lascio con Decline And Fall. Buon ascolto.

villo Virginia Villo Monteverdi

 

Virginia Villo Monteverdi
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