I migliori anni della nostra vita (The best years of our lives, William Wyler, 1946)
Nel 1947 il film di William Wyler I migliori anni della nostra vita conquista sette Oscar, diventando uno degli esempi più celebri del cinema classico americano. Affrontando il tema della reintegrazione postbellica dei reduci di guerra, Wyler descrive la difficile accettazione del diverso e la volontà di andare oltre le apparenze e le difficoltà dei cambiamenti.
Il film è il racconto di un difficile ritorno a casa dei tre protagonisti reduci della seconda guerra mondiale; Fred Derry, un capitano di aviazione, Homer Parrish, giovane marinaio, e Al Stephenson, sergente dell’esercito americano, si incontrano sull’aereo militare che li riporta a Boone City. Homer ha perso entrambe le mani in un incendio sulla portaerei e al loro posto ha due protesi meccaniche; Fred rivede sua moglie che, venti giorni dopo il matrimonio, ha dovuto lasciare per partire in guerra; Al torna dalla sua famiglia.
La difficoltà del reinserimento postbellico è narrata da Wyler con grande realismo e sensibilità. I tre protagonisti affrontano ognuno una diversa crisi interiore che li porta a colmare l’enorme distanza che corre tra chi non conosce il dramma della guerra e chi ne è stato protagonista. Al, il più anziano, è colui che si trova a dover “familiarizzare” con quanto ha di più caro: deve imparare a conoscere i figli ormai adulti e riavvicinarsi alla moglie, ricominciare a lavorare in banca e fare i conti con una quotidiana realtà che è tornata prepotentemente nella sua vita. Fred, invece, scopre di detestare la donna che ha spostato, la quale si dimostra poco sensibile alle angosce che turbano i sogni del marito e per niente incline a sopportare una vita di stenti e economie. Conosce la figlia di Al, se ne innamora e decide, non privo di scrupoli per la sua situazione coniugale, di passare il resto della vita con lei. Homer, al suo rientro, si trova a dover affrontare la pietà della famiglia e della fidanzata. L’aspetto centrale della sua storia è legato ai sensi, in particolare alla vista. Ciò che più lo disturba è lo sguardo altrui: quello che viene indirizzato alle sue protesi e quello che accuratamente se ne discosta. Fin dal suo arrivo è la vista delle protesi che turba la felicità familiare per il suo ritorno. Allo stesso modo, Homer è consapevole che la notizia del suo incidente è ben altro rispetto al vederne gli effetti. L’imbarazzo dei genitori, incapaci di comportarsi naturalmente e nel modo più corretto possibile, si traduce in sguardi di compassione e rimproveri se i piccoli della famiglia fissano incuriositi i movimenti di Homer. Parallelamente è il tatto l’altro senso che angoscia Homer, consapevole che, nonostante la fidanzata Wilma sia ancora innamorata di lui, gli sarà per sempre impedito di accarezzarla e toccarle i capelli. Se Homer ha accettato quanto gli è successo, riuscendo a scherzare e prendersi in giro coi compagni militari, tuttavia si sente estraneo da una realtà che non è più familiare, in cui la diversità sembra essere una croce insostenibile.
Wyler racconta la difficoltà per chi è rimasto a casa di adeguarsi a un’esperienza sconosciuta e lontana e lo sforzo necessario per andare oltre la propria quotidianità e accogliere il dolore altrui. Le difficoltà del reinserimento non si traducono solo in una difficile reintegrazione familiare, ma anche nella ricerca di un impiego e di un posto in una società che sembra non avere nulla da offrire: le capacità militari sono del tutto inutili per lavorare in un centro commerciale; chi ha trovato lavoro grazie alla partenza dei militari adesso si sente minacciato dal loro rientro, si contesta l’empatia che nasce quando tra “compagni” è doveroso aiutarsi mettendo da parte le regole. La lontananza della mentalità tra chi torna e chi non è mai partito viene raccontata dal regista in modo sottile e sincero. La solitudine sembra essere la condizione obbligata per i reduci, messi alla prova da un ritorno difficile che si traduce fin dalle prime immagini nella difficoltà pratica anche solo di trovare un mezzo di trasporto che li riporti a casa. La malinconia per aver impiegato i migliori anni della propria vita nell’attesa e nel disastro atomico sembra essere trasformata, grazie al tradizionale happy ending nel cinema classico, nella speranza verso il futuro e nella consapevolezza che si hanno ancora tanti anni davanti.
Erica Barbaro
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