Quanto l’influenza dei mostri sacri della cultura italiana e internazionale è stata importante per la formazione artistica delle nuove generazioni di artisti? Una risposta indiretta è fornita da Lidia Papotto, regista catanese che ha studiato nella città della Torre Pendente: la sua opera prima, Incubo per una mosca bianca, è un vero e proprio tributo al maestro Mario Bava.
Chi è Lidia Papotto prima di essere una regista?
«Io ho sempre amato il cinema sin da quando ero bambina, forse anche per la fortuna di avere avuto un insegnante che ci faceva fare critica del cinema alle scuole medie. Saltando un po’ di anni, mi sono laureata a Catania nella Facoltà di Lettere e poi all’Università di Pisa ho fatto la magistrale in Cinema, Teatro e Produzione Multimediale. La mia tesi di laurea magistrale è stata sull’applicazione dei gender-studies all’interno del cinema gotico italiano. Incubo per una mosca bianca è il mio primo vero cortometraggio».
In che modo è entrata in sintonia con questo tipo di cinema?
«Mi interessava molto approfondire questo tipo di cinema perché il cinema di genere italiano mi dava la possibilità di conoscere meglio la storia del mio paese. All’interno del cinema gotico vedevo degli spunti importanti per riflettere sull’emancipazione della donna. Mi sono interessata a questo filone e così ho scoperto Mario Bava».
Qual è stato il primo film che ha visto di Mario Bava?
«La maschera del demonio».
Quali sono gli aspetti del cinema di Mario Bava che le sono piaciuti sin da subito?
«L’utilizzo del colore e le sue atmosfere, e soprattutto il suo utilizzo della paura. Mi interessava la sua relazione con la paura e il mondo perturbante fatto di simboli e piccoli dettagli, visto che come spettatrice non mi piace l’utilizzo dello splatter e delle scene gore. La goccia d’acqua (terzo episodio de I tre volti della paura, nda) è stata una delle cose più terrificanti da vedere per me. Purtroppo l’utilizzo del colore e della fotografia presente nei film di Bava non si vede più nei film prodotti in Italia e questo dispiace. L’utilizzo di quelle luci rappresenta un elemento di finzione che provoca uno straniamento che paradossalmente è più realistico».
E prima della scoperta del mondo baviano, quali erano i suoi punti di riferimento?
«Io nasco felliniana e anche la mia tesi triennale verteva sull’analisi del cinema di Federico Fellini partendo dal testo L’immagine-tempo di Gilles Deleuze».
Arriviamo a parlare del cortometraggio Incubo per una mosca bianca. Qual è stato l’iter che ha portato una studentessa di cinema a diventare una regista?
«Ho deciso di usare lo strumento cinematografico e l’arte del cinema per esprimere il mio mondo citando un autore formidabile».
Si può vedere bene nel corto come la fotografia e il montaggio siano veri protagonisti…
«Sì, la fotografia e il montaggio sono opera di Federico Polacci che viene dal mondo del teatro. Essendo un corto a zero budget ho chiamato amici e artisti che potevano prestarsi a quest’idea. Lui mi ha fornito delle luci teatrali e, avendo anche la possibilità di spaziare con tante gelatine diverse, abbiamo dato molto spazio e attenzione a questo elemento».
Nel cortometraggio quanto c’è di Lidia Papotto e quanto di Mario Bava?
«Facile accorgersi che ci sono molte citazioni: da Operazione Paura a I Wurdalak passando per Reazione a catena. Tuttavia l’opera è originale, scritta a tre mani insieme a Fabio Meini e Federico Polacci. Per me Incubo per una mosca bianca è un’autobiografia: è un viaggio all’interno di un mondo psichico. La protagonista è dentro se stessa, ha la possibilità di uscire fuori ma preferisce rimanere dentro, dove tutte le apparizioni che vediamo sono una rappresentazione altra di sé medesima».
In quanto tempo è stato scritto e girato Incubo per una mosca bianca?
«L’idea è nata nel luglio 2014, momento in cui ho proposto a Fabio Meini di fare un cortometraggio. All’inizio stavamo cercando delle idee sul Mostro di Firenze, ma poi abbiamo preso un’altra strada. Nella mia mente si è cristallizzata un’immagine, da questa immagine ho ricavato un soggetto e da questo soggetto abbiamo scritto la sceneggiatura a sei mani. L’anno seguente, a giugno 2015, avevamo l’opera finita. Abbiamo cercato di dimostrare che l’arte non ha limiti neanche davanti a budget invisibili, facendo la migliore cosa che potevamo attraverso le nostre umili risorse.
Le riprese sono durate cinque notti, dalle sette di sera alle sette del mattino. L’operatore di macchina ci aveva proposto di girare tutto a luci bianche e aggiungere i colori in post-produzione ma così facendo si sarebbe persa l’artigianalità dell’operazione, quindi abbiamo deciso di girare con i colori d’ambiente creati dal vivo».
E la location?
«A Villa Saletta, vicino a Palaia (provincia di Pisa)».
Gli attori come sono stati scelti?
«La protagonista (Ylenia Campedrer) l’avevo conosciuta a teatro perché avevo fatto l’aiuto-regista per uno spettacolo di adolescenti messo in scena a Cascina. Mi era piaciuta per il suo viso, i suoi capelli rossi, la struttura molto magra e mi ricordava le belle donne con i tratti ultraterreni. Così anche Bianca (Tomassini), la ragazza che dà il bacio a Ylenia, e Valentina (Bischi), la ragazza nel giardino, le ho conosciute in ambienti teatrali. Anna (Basteri), la ragazza uccisa che si vede all’inizio e alla fine, è invece la mia aiuto regista. L’anziana con i capelli rossi invece l’ho conosciuta leggendole i tarocchi e gli altri sono amici, alcuni dei quali conosciuti nei vari casting e annunci su internet».
Il cinema per Lidia Papotto è…
«Un mezzo artistico fortissimo per comunicare attraverso un mondo simbolico degli elementi psichici che possono essere in grado di guarirci, di risvegliarci, di emozionarci e proprio questa finzione e questi colori così estremi per me sono molto più veri rispetto ad altre scelte. A me il realismo non interessa. È necessario nel cinema – ma anche nei laboratori teatrali che organizzo – far uscire maggiormente il nostro mondo interiore».
Attualmente c’è qualche cineasta che riesce ad apprezzare con tanta passione come quella per Bava e Fellini?
«Riesco a vedere quasi sempre le stesse cose, sarà un periodo della mia esistenza, ma non c’è ancora qualcosa che mi ha colpito particolarmente. Ho i miei dvd e quando ho bisogno di star bene mi guardo Aki Kaurismäki, Woody Allen, Sergio Leone, Mario Monicelli, Wong Kar-wai. Non ti riesco a dire un nome attuale anche se ho trovato interessante The Lobster di Yorgos Lanthimos e Il racconto dei racconti di Matteo Garrone».
Quando e come la rivedremo all’opera?
«Stiamo lavorando su un soggetto che ha come protagonista Giovanna D’Arco ma in versione contemporanea. Il soggetto si baserà sulla storia di una ragazza molto semplice che si scontra contro una società che non la comprende. Ha delle allucinazioni (che potrebbero anche essere la sua verità) e sarà una storia aperta tipo Rosemary’s Baby. A me piace quel cinema che non svela tutto, mi interessano i corpi e gli atti estremi e con la figura di Giovanna D’Arco spero di far parlare al meglio la mia idea di cinema. Con Grozdana Tilotta, la pittrice della locandina e di alcuni quadri di Incubo per una mosca bianca, con Federico (fotografia, montaggio e sceneggiatura), con Fabio (sceneggiatura) e Anna (aiuto regista) c’è l’idea di fare questo percorso insieme».
Tomas Ticciati
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