Una vita breve ma intensa, quella della fotografa americana Francesca Woodman. Quando si parla di lei, emerge da subito un dettaglio ritenuto imprescindibile per la comprensione della sua opera: la sua morte, avvenuta da suicida nel 1981, all’età di 22 anni.
Valutare l’opera di Woodman a partire da questo dettaglio biografico ne limiterebbe la comprensione. Le fotografie di Woodman sono rigorosamente incatenate alla necessità di fare piena esperienza del suo corpo e della sua stessa vita. L’evidenza più eclatante sta nella grande energia vitale della fotografa americana, il suo intenso dialogo con l’obiettivo si mostra in ognuna delle 800 – e più – immagini fotografiche scattate tra i 13 e i 22 anni.
Francesca Woodman fotografava spesso sé stessa: si autorappresentava – «per una questione di praticità. Io sono sempre disponibile» – dichiarò poi. Ma anche per conoscersi, indagando la sua fisicità e il rapporto con il contesto, lasciandosi travolgere da un flusso di coscienza dove soggetto e oggetto stabiliscono una relazione fluida e indefinita. Luce, corpo e ambiente si contaminano a vicenda, descrivendo scenari surreali e mistici, esplorando nuove dimensioni spazio-temporali.
Woodman era nata nel 1958 a Denver, cresciuta tra gli impulsi visionari della pittura del padre George e la carica energica delle ceramiche colorate della madre Betty. Da bambina le capitava spesso di trascorrere le vacanze estive a Firenze, dove imparò a suonare il pianoforte e dove sarebbe tornata più tardi, a cavallo tra 1975 e 1979. Durante questo periodo aveva frequentato la Rhode Island School of Design (RISD), uno dei più importanti college di belle arti degli Stati Uniti.
Gli autoscatti del 1976 ritraggono il giovane corpo della Woodman, interamente nudo ma nascosto e confuso tra le ombre di un terreno desertico o tra le radici nodose di un albero cresciuto al ridosso di un fiume. L’intento della fotografa americana sembra essere animato dalla volontà di annullare la propria fisicità corporea, legittimando, invece, le più diverse forme espressive della sua anima. Liberata soltanto attraverso la mimesi con l’ambiente: siano il fango e la polvere di una natura genuina o la carta da parati di una borghesissima camera domestica.
L’Italia era sempre stata un punto di partenza stimolante per la fotografa americana, fu proprio durante quegli anni che entrò in contatto con l’atmosfera della Transavanguardia italiana. La nuova dimensione artistica poneva sul tavolo l’accettazione della crisi storica degli anni ’70, che aveva investito economia, cultura e morale, imponendo, di fatto, la necessità di un ridimensionamento nei confronti degli impulsi ottimistici propri delle precedenti Avanguardie storiche.
Nel 1978, in pieno clima di fermenti artistici e culturali, Woodman allestì la sua prima mostra fotografica a Roma, nella libreria-galleria Maldoror di Giuseppe Casetti, dove la fotografa americana ebbe modo di attingere al vasto archivio di volumi d’arte, antiche stampe e fotografie surrealiste allora inedite.
La capitale italiana fece da contorno anche alla serie Calendar Fish: un diario fotografico con i giorni dal 1 al 7 marzo simboleggiati da un numero progressivo di anguille.
Risale al 1981 la serie fotografica Some Disordered Interior Geometries (Alcune disordinate geometrie interiori). Una raccolta di visioni razionali che suggeriscono una chiave di lettura logica, quasi matematica, sul mondo. Le fotografie della serie furono organizzate in una struttura che ricorda un classico manuale scolastico di geometria.
L’intento della raccolta è quello di spiegare attraverso immagini concrete, alcuni concetti ideali.
La fotografia di Woodman è stata definita “demoniaca” e “queer”, il suo lavoro è stato spesso avvicinato al surrealismo – movimento che lei stessa dichiarò di aver osservato e amato – eppure esiste, nascosta dietro ogni singola immagine, una visione universale della condizione umana di quegli anni.
Francesca Woodman fotografava quasi sempre se stessa, ma le sue continue sperimentazioni la portarono al raggiungimento di un linguaggio generale. I lunghi tempi di esposizione permettevano di cancellare ogni traccia del suo volto, che è spesso in movimento, nascosto, girato. Sconosciuto.
Ognuno può rispecchiarsi in quelle immagini, penetrando in una visione leggera ed eterea, dove il corpo umano ha la consistenza della sua anima. Come quella di un angelo che si libera da terra sfidando le leggi gravitazionali ( come emerge dalla serie Angel, Roma, 1977).
M’interessa come l’individuo si relaziona allo spazio… Ho iniziato a fare le foto fantasma, le persone che svaniscono[…]
La ricerca di Woodman trovò la sua collocazione dentro i meccanismi dell’universo, che sanno essere tanto rigorosi quanto spasmodici. Una visione così irrazionale e lucida non poteva essere espressa che attraverso la fotografia. I riverberi della luce cadenzano la visione: nascondendone alcuni dettagli e concedendone altri. L’assenza insegue la presenza, assecondando una logica dove soltanto attraverso il vuoto possono essere spiegati i pieni. Gli orpelli e sovrastrutture del reale cadono, per favorire il ristabilimento di un equilibrio archetipo.
Io vorrei che le mie fotografie potessero ricondensare l’esperienza in piccole immagini complete, nelle quali tutto il mistero della paura o comunque ciò che rimane latente agli occhi dell’osservatore uscisse, come se derivasse dalla sua propria esperienza.
– F. Woodman –
Giulia Buscemi
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