All’origine di Internet. Intervista al dottor Marco Sommani

PISA – Gli organizzatori dell’Internet Festival hanno anticipato che l’edizione 2016 sarà una specie di “ritorno al futuro” dove gli anni Ottanta saranno il ponte con il prossimo avvenire. Così anche Tuttomondo ha pensato di partire dagli anni Ottanta e da chi in quel fatico 30 aprile 1986 era presente al Cnuce (Centro nazionale universitario di calcolo elettronico) di Pisa. In questa occasione è stato quindi intervistato il dottor Marco Sommani, oggi in pensione e in precedenza dirigente presso l’Istituto di Informatica e Telematica del Cnr, una delle persone coinvolte nell’attivazione del primo collegamento Internet italiano.

Marco Sommani

Marco Sommani

Quale atmosfera si respirava in quei giorni tra coloro che si occupavano del progetto? Si percepiva un’aria da grande momento e grande scoperta, o si trattava di tentativi e ricerche su cui lavoravate da anni?

«È sbagliato parlare di ricerca. In realtà si trattava di servirsi di tecnologie e macchinari sviluppati negli USA, dove già erano utilizzati da qualche anno. Il suo momento creativo il Cnuce lo aveva avuto nel decennio precedente, con il progetto Reel (Rete di Elaboratori), che aveva portato alla realizzazione della rete RPCNet (Reel Project Computer Network). La rete RPCNet fu effettivamente usata nel CNR per alcuni anni, ma fu sostituita con altre soluzioni quando fu evidente che il CNR non disponeva delle risorse umane e finanziarie necessarie per impegnarsi adeguatamente nella manutenzione di ciò che era stato realizzato. D’altra parte, una rete è tanto più utile quanto più grande è la sua diffusione e nessuno di noi pensò mai che la nostra realizzazione potesse avere una diffusione mondiale. Il collegamento Internet del 1986 fu tuttavia un evento notevole, perché in quell’occasione il CNR ebbe il coraggio di impegnare risorse finanziarie e umane per un’operazione che veniva sconsigliata da tutti i “guru” dell’epoca. Negli anni ’80 erano disponibili più di una soluzione con cui realizzare reti di computer; la maggior parte di queste erano state disegnate dai produttori di computer, per cui rendevano possibili solo le comunicazioni fra computer di una sola casa costruttrice. La tecnologia di Internet (detta TCP/IP), invece, già nel 1986 era disponibile su quasi tutti i computer; in altre parole, era “vendor independent”, caratteristica particolarmente apprezzata da noi al Cnuce. In questo giudizio ci trovammo tuttavia piuttosto isolati, perché allora quasi tutti erano convinti che la soluzione del futuro per le reti di elaboratori sarebbe stata l’architettura OSI, sulla quale stavano lavorando i principali organismi di standardizzazione internazionali. A dire il vero, anche nel Cnuce eravamo convinti che la vittoria finale sarebbe spettata all’OSI, ma ritenemmo che fosse più saggio partire subito, pur nella convinzione (rivelatasi poi errata) di dover riconvertire tutto in un secondo tempo. Non condividevamo l’inerzia di chi preferiva continuare ad aspettare. In quegli anni, pochi in Europa ragionarono come il Cnuce».

Quali erano in quel momento gli usi che sarebbero stati fatti del nuovo strumento? Quando invece anche voi vi siete resi conto di quelle che erano le potenzialità reali della rete?

«Il mondo delle università e della ricerca disponeva già di reti a diffusione globale; le più usate erano EARN/BITNET, utilizzabile sui computer IBM e HEPNet/SPAN, utilizzabile su quelli della Digital Equipment Corporation. Per la sola posta elettronica disponevamo di “gateway” che rendevano possibili le comunicazioni fra l’una e l’altra rete, ma per la maggior parte delle altre applicazioni ciò non era possibile. Prevedevamo quindi di usare Internet per gli stessi scopi per cui già utilizzavamo le reti, con il vantaggio di poterlo fare fra computer di produttori diversi. Si trattava più che altro di facilitare la collaborazione fra gli studiosi.
Internet fece un grande salto di qualità nel 1990/91, quando Tim Berners Lee, ricercatore del CERN di Ginevra, realizzò la tecnologia del world wide web. La vera sorpresa per noi avvenne all’inizio degli anni ’90, quando in pochissimo tempo Internet divenne un prodotto commerciale disponibile anche fuori dalle università e dagli istituti di ricerca. Il tutto avvenne nell’arco di pochissimo tempo. Ancora nel 1991 né gli operatori di telecomunicazioni né i distributori di contenuti immaginavano che Internet potesse essere una fonte di profitti. Nel 1994 le cose erano cambiate al punto che perfino la nostra SIP ritenne opportuno avviare il suo servizio Interbusiness. Questa trasformazione della rete avvenne inizialmente negli USA; in Italia e anche nel resto d’Europa si trattò soprattutto di imitare ciò che avveniva oltre oceano».

Come immaginate che si svilupperà Internet e come potrebbe evolversi nei prossimi 15/20 anni?

«Non è assolutamente il caso di provare a fare previsioni. Tutti quelli che in passato hanno provato a farne hanno sbagliato completamente. Posso tuttavia dire cosa è urgente fare se si vuole che Internet continui a svilupparsi: occorre accelerare il passaggio dall’indirizzamento a 32 bit a quello a 128 bit. In termini tecnici, passare dalla versione 4 dell’Internet Protocol (IPv4) alla versione 6 (IPv6). Con soli 32 bit già oggi non è più possibile assegnare un indirizzo univoco a tutte le apparecchiature della rete (computer, smartphone, tablet, elettrodomestici, sensori, router, etc.) e si ricorre a soluzioni di ripiego che danno luogo a numerosi inconvenienti e che comunque non possono essere considerate definitive. Fuori dell’Italia l’introduzione di IPv6 è già molto avanzata, mentre qui da noi solo l’1% del traffico Internet usa la nuova versione. Per il generico utente di Internet il passaggio alla nuova versione è indolore e non richiede nessun intervento, ma i primi che devono impegnarsi nell’operazione sono i fornitori di accessi Internet; in questo i nostri operatori italiani procedono con estrema lentezza. Le eccezioni sono pochissime: la più notevole è la rete GARR, ossia la porzione di Internet che collega le università e gli enti di ricerca italiani, dove IPv6 è presente già dal 2005. Fino ad ora tutti quelli che hanno attivato IPv6 hanno mantenuto anche IPv4, per cui chi ha a disposizione solo la vecchia versione continua a poter comunicare con tutti, ma questa situazione non è destinata a durare in eterno».

Oggi Internet è alla portata di tutti, prima dagli internet point, poi dai pc personali e ora sul cellulare e tablet. I primi anni dopo la prima connessione Internet chi poteva invece usufruire facilmente di tale strumento?

«Nel 1986 in Italia gli unici che potevano usare Internet erano quelli che avevano un’utenza su un computer collegato alla rete locale del Cnuce; in qualche modo era stato possibile estendere questa rete locale ad altri edifici dell’isolato, per cui in questo piccolo numero erano inclusi anche alcuni computer dell’Istituto di Elaborazione dell’Informazione del CNR (IEI) e del Dipartimento di Fisica dell’Università di Pisa, che allora si trovava in piazza Torricelli. Occorre precisare che anche fuori dall’isolato e fuori di Pisa c’erano universitari e ricercatori che disponevano di un’utenza su uno dei grandi elaboratori IBM del Cnuce. L’utilizzo di Internet era possibile ma solo a certe condizioni. Infatti, a causa della presenza su Internet di computer del Dipartimento della Difesa USA, il Cnuce aveva l’obbligo di far firmare a tutti quelli che desideravano utilizzare la rete una dichiarazione in cui si impegnavano a non servirsene per scopi contrari alla sicurezza degli Stati Uniti. Queste restrizioni cessarono nel 1988, quando furono creati confini netti fra la parte militare della rete e tutto il resto».

Internet e la rete in generale, secondo Lei, possono essere considerati ad oggi un “bene comune”?

«Siccome la rete non ha un proprietario, la definizione di “bene comune” mi sembra appropriata. Lo è anche perché continua a reggersi su organismi (IETF, RIPE, IANA…) basati sulla collaborazione spontanea di individui e non su rappresentanze di governi, nazioni o imprese. Purtroppo il grosso dell’utenza di Internet non è consapevole di questi aspetti e tende piuttosto a considerarla un servizio commerciale gestito da operatori di telecomunicazioni e fornitori di contenuti. Nei primi anni di Internet era chiarissimo che non esisteva una distinzione fra “fornitori” e “clienti” della rete, oggi la maggior parte degli utilizzatori della rete riesce con facilità a vederne la facciata, ma raramente ha l’occasione di conoscerne la vera struttura. Fin dall’inizio, questo spirito collaborativo è stato un elemento caratterizzante di Internet ed ha anzi contribuito non poco alla vittoria del TCP/IP sull’OSI».

Secondo lei le giovani generazioni che sono nate e cresciute con Internet si rendono conto della facilità di accesso alle informazioni che circa 15-20 anni fa non era possibile? 

«Non credo che le nuove generazioni abbiano difficoltà a capire che tante cose che oggi sono facili un tempo erano complicate. Pochi però possono rendersi conto di quante cose che in passato recavano gioia oggi non esistono più. Per esempio, oggi non conosciamo più la gioia di ricevere una lettera di un amico dopo una lunga attesa o di ritrovarci con una persona cara dopo una lunga separazione».

Virginia Villo Monteverdi e Mary Ferri

 

Virginia Villo Monteverdi
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