Nel laboratorio del Poema. Dante secondo Luigi Blasucci

PISA – Giovedì 25 maggio si è tenuto il primo incontro della manifestazione Danteprima, seconda edizione del progetto tutto pisano che celebra il Sommo Poeta, e che già nell’anno precedente con Dante Posticipato aveva riscosso grande successo e partecipazione.
La prima giornata della manifestazione dantesca si è aperta presso la Sala delle Baleari di Palazzo Gambacorti con una lectio magistralis del Prof. Luigi Blasucci, moderata da Marco Santagata, e intitolata “Nel laboratorio del poema”.

Da sinistra: Luigi Blasucci e Marco Santagata

In questa lezione il Prof. Blasucci, che lui stesso ha definito ironicamente “lectio professoralis” per accostarsi ad un pubblico vasto e non scendere troppo in derive specialistiche, si è soffermato sulla capacità inventiva di Dante all’interno delle rime e del metro della terzina. Per capire davvero Dante e per leggerlo con profondità e godimento intellettuale bisogna prima indagare la sua genialità e la sua creatività che nasce sempre con l’uso delle rime e delle parole, con la gestione del metro e della sintassi. Un modo nuovo e approfondito di leggere Dante che inevitabilmente lo ha reso ancora più vicino a noi.
Blasucci ha condotto il suo pubblico con fresco entusiasmo a scoprire come il poeta si rapporta nella commedia con due unità fondamentali: la rima e il canto come unità metrica, cercando sempre di far emergere come la grata della forma della terzina sia stata per lui un campo di prova per la sua infinita creatività. Si è cercato dunque di riscoprire Dante attraverso lo studio e il piacere delle sue parole così sempre varie, inusuali ed evocative. 
Blasucci ha cominciato dalla forma metrica: la terzina dantesca è un cerchio dinamico in cui le rime finali dei versi creano una concatenazione consecutiva con le terzine successive, ma ogni verso ha una sua sua autonomia semantica e racconta sempre delle azioni che divengono consequenziali l’una all’altra. Una terzina come “Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai in una selva oscura, che la diritta via era smarrita” ha assunto con questa lettura un’altra luce: ogni verso, ha affermato Blasucci, riesce a creare un’attesa e questa attesa deve assolutamente risolversi nella terzina successiva, generando una concatenazione inesauribile. Qui sta parte della genialità di Dante, ovvero nel riuscire a portare avanti la narrazione per immagini e attraverso lo schema delle rime, che servono appunto per dare sviluppo al discorso narrativo.
La rima in Dante è infatti un’esercizio di creatività che sfida la lingua e i suoi limiti. Le rime aprono, legano e chiudono i concetti, e quando si vuole portare a termine un’azione o un racconto Dante usa una parola che non rima con quelle precedenti, proprio per chiudere il cerchio e cambiare argomento o situazione, come accade alla fine di ogni canto. Come la lingua dantesca che è un’insieme di varietà linguistiche, onomatopee, fonosimbolismi, lessico crudo e vibrante di realtà concreta, così le sue rime fioriscono all’interno di una ricerca acrobatica che sfida i limiti dell’immaginazione generando immagini evocative attraverso parole dense di realtà. 
Blasucci ha fatto notare che Dante riesce sempre a inserire nel terzo verso della terzina la soluzione rimica più strana e inattesa, creata dalle parole precedenti che sono parole chiave che generano il contenuto della terzina. Uno dei migliori esempi che confermano queste acrobazie è la visione di Dio nel canto XXXIII del Paradiso:

La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.
Un punto solo m’è maggior letargo
che venticinque secoli a la ‘mpresa
che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.

Largo e letargo sono due parole chiave per esprimere il senso di oblio che investe Dante in quel momento, ma è la parola Argo e l’immagine che si porta dietro che al meglio riescono ad esprimere il senso di dimenticanza al cospetto del divino. Sono state le parole chiave dei versi precedenti (largo e letargo) e generare maieuticamente la terza rima che si rivela geniale e perfetta per esprimere il senso di oblio che dura per dei secoli e che esprime alla perfezione lo stato d’animo del poeta. Si apprezza così ancor di più il momento in cui Dante dice al lettore che ha perso la memoria per un attimo, dove la dimenticanza agli occhi di Dio è pari al lontanissimo ricordo dell’impresa degli Argonauti di 25 secoli prima.
Da qui spesso si trova nella Commedia che il terzo verso ha sempre una rima geniale che sfida le difficoltà. Dante addirittura è riuscito a creare dei neologismi in questo modo e a far rimare parole difficili come soffia/roffia e parroffia, addentrandosi comunque in metafore e significati perfettamente coerenti col contesto e incredibilmente evocativi, ma agganciati alla solidità del reale in modo fortissimo, come accade con le rime chiocce e le parole aspre dell’Inferno.

Altro punto che Blasucci ha indagato per poter apprezzare Dante con profondità e creatività è quello del canto come unità metrica: ogni canto termina con un verso isolato sintatticamente che rima con il secondo verso della terzina del canto successivo. Questo fa si che gli ultimi versi dei canti (in particolare quelli dell’Inferno) restino come i più memorabili, come delle sentenze cariche di emozione: “Caddi come corpo morto cade”, “Allor si mosse, e io li tenni dietro” etc.
Ogni verso finale chiude un cerchio e una narrazione per aprirne una nuova. Questo accade spesso, almeno fino al VII e VIII canto dell’Inferno da cui però il poeta inizia a discostarsi per rendere la narrazione e la struttura più originale e meno schematica. Dante infatti più va avanti nei canti più cerca di abbandonare la corrispondenza canto-girone, fino all’VIII canto dove si rompe questa unità tematica. Il poeta cerca sempre di non essere mai banale, e pian piano che prende coscienza della sua libertà scrittoria e narrativa, introduce proemi e sfalda la struttura dei canti stirandone il contenuto. Il proemio, come ha affermato più volte Blasucci, è proprio uno strumento che il poeta inizia ad utilizzare per movimentare la narrazione (sopratutto dal XIX canto dell’Inferno in poi) e ad esso affianca enjambements narrativi che legano i canti tra loro, come quello che unisce la fine del canto XXXII dell’Inferno al XXXIII di Ugolino dove la parola “bocca” (in una troncatura sintattica) acquista un significato ancora più drammatico “[…] se quella con ch’io parlo non si secca. La bocca sollevò dal fiero pasto […]”. Stratagemmi questi che insieme alle rime ricercate articolano la narrazione in modo sempre creativo con la voglia di rompere regole e schemi, creando passaggi semantici strettissimi e momenti di descrizione, dinamica e stasi. 
Elementi a cui non si può rinunciare se si vuole leggere Dante con un occhio creativo, e approfondito, che possono davvero cambiare il modo di apprezzare il poeta, rendendo la sua scrittura e la sua genialità linguistica e narrativa ancora oggi contemporanea e fuori da ogni schema prestabilito.

Virginia Villo Monteverdi
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