The Dying Fall
Pisa apocalittica e paradossale nel racconto di J. G. Ballard
Alzi la mano chi non si è mai chiesto «Ma la Torre di Pisa, come fa a restare in piedi?», o chi, per guardarla meglio e mettere a fuoco le arcate e loggette, non si sia piegato, inclinato, abbassato, imitandone il movimento. Perché sebbene ferma, immobile, imperfettamente identica a se stessa da secoli, la Torre e i suoi marmi sembrano essere viventi e sembrano quasi avvicinarsi fatalmente allo spettatore ignaro.
James Graham Ballard, scrittore inglese, autore di Crash e Empire of the Sun, The Atrocity Exhibition e Cocaine Nights, avrà pensato lo stesso nel ritrarre “quell’eccezionale pezzo di storia” come una sorta di partner in crime del protagonista del suo racconto The Dying Fall, tradotto in italiano con il titolo Crollo mortale.
Il racconto è breve e consiste in un paradossale flashback in cui il protagonista, un professore universitario di discipline classiche, ricorda quel giorno in cui la Torre crollò mentre era in visita a Pisa con la moglie Elaine, architetto per nulla amante del passato. In quel momento il crollo della Torre risucchiò la donna e una ventina di turisti che erano saliti in cima, ma non il protagonista, che era rimasto sotto a guardare, frenato dalla sua paura per le altezze.
Dietro il simbolo della collisione tra il mondo moderno con quello rinascimentale, tra il passato e la modernità, c’è l’umana, semplice, piccola, per certi versi naturale volontà del protagonista di “disfarsi” di Elaine, moglie e donna esasperata ed esasperante che non perde mai l’occasione di sottolineare l’inferiorità di quell’uomo, di quel marito, amante, insegnante, compagno di vita e di viaggio. Infatti «nonostante tale prova di affetto, di lì a poco mi accorsi che il nostro tour della Toscana si era trasformato in una serie di ascese verticali […] Stava cercando di curare la mia paura del vuoto, o di provocare la mia personale sensazione di inadeguatezza?».
Il desiderio di Elaine di salire sulla Torre, simbolo di “eretta virilità”, non è altro che la sua ennesima esibizione di disprezzo dei confronti di un marito incapace. Ma ben presto, l’amore della donna per la verticalità, per tutto ciò che elevato, distaccato, ingente e superiore, le si ritorcerà contro fatalmente.
La Torre, rimasta in piedi in bilico per secoli, cade e si sbriciola, e la sua storica, imperfetta e memorabile verticalità si riduce in un orizzonte di macerie miste a curiosa umanità.
«L’unica figura a terra consapevole dell’imminente catastrofe è un uomo in giacca bianca, col panama in testa, ritto ai piedi della torre, con tutt’e due le mani alzate verso il fianco di marmo. Ha il viso nascosto, ma tiene le braccia puntate contro la pietra cedevole, la schiena arcuate sulle gambe in tensione. […] Ma cercava davvero di sostenere la torre, o piuttosto, voleva aiutarla nella sua discesa?».
L’uomo col cappello di panama, il marito incapace, il professore non all’altezza, il viaggatore pauroso, è il protagonista che sceglie quell’eccezionale pezzo di storia come mezzo per disfarsi di sua moglie. L’eretta virilità della Torre diventa quasi un prolungamento speciale del suo braccio, e l’estendersi repentino della crepa, da terra verso l’alto, sembra essere il “sì” accondiscendente e fiero del Marmo alla volontà del professore. La Storia confluisce e coincide con le vicende umane, in un modo tanto paradossale e bizzarro quanto logico e razionale.
Ma questo è James Graham Ballard. In The Dying Fall si ritrova il suo amore per le cose che si accartocciano e si distruggono, per le catastrofi, per i rapporti umani complicati che trovano il loro epilogo in un finale tragico che lascia attoniti e increduli. Nel breve racconto che sintetizza contemporaneamente le paure e gli indicibili desideri umani, egli usa tutta la sua logica di maestro di fantascienza.
Con Ballard, infatti, lo sguardo fantascientifico non abbraccia spazi primordiali e sconosciuti, ma ricade precipitosamente sulla realtà terrestre e si avvicina ad una dimensione temporale conosciuta o quantomeno, familiare. Egli si appassiona al “futuro concreto […] più che il fantastico futuro tanto caro alla fantascienza. Il futuro, cosa inutile a dirlo, è un posto pericoloso da frequentare, fittamente minato e con la tendenza ad azzannarti i polpacci mentre ti ci inoltri”.
Egli non parla di para-organismi o di universi paralleli distanti ed irraggiungibili, ma dell’uomo e della sua dimensione come “spazio” da scandagliare e perlustrare.
Le superfici intergalattiche e interplanetarie si riducono vertiginosamente; il corpo diventa una sorta di involucro che contiene una nuova estensione tutta da esplorare, e la tecnologia viene ammessa solo nella misura in cui impatta con l’universo interiore dell’uomo: ne vengono analizzati i suoi effetti, non le sue avveniristiche e sbalorditive conseguenze. Ballard costruisce così un universo attuabile prendendo spunto da fatti accaduti davanti ai quali la coscienza umana non prova meraviglia o stupore, ma avversione, vedendo la riproposizione radicale dei propri spazi interiori. Non si tratta di credere o no, ma di arrendersi, cercando di far emergere la convergenza fra il proprio universo e quello dell’autore.
Ballard desidera comprendere come l’uomo del Ventunesimo secolo stia cambiando, come abbia reagito all’invasione massmediatica, come si comporti di fronte all’incombere delle nuove tecnologie, e, da ultimo, come tutto ciò influenzi il suo immaginario e la sua intera vita interiore. Per questo vengono abbattuti i confini che separano scienza ed arte, pubblicità e letteratura, politica e cultura popolare, utopia e anti-utopia, informazione e cronaca, finzione e realtà; “sesso, tecnologia, pubblicità, la morte del pianeta, le sempre nuove forme di comportamento patologico, il mondo parallelo popolato dalle vite e opere delle celebrità”, tutto è amalgamato freddamente per avere una visione migliore di ciò che accade.
Con Ballard, il mondo non è un puntino nell’universo poiché la prospettiva si capovolge: dall’esterno si passa all’interno, e questo brusco rovesciamento viene avvertito in tutta la sua sovrabbondanza di senso poiché tinge la sua fantascienza di un valore filantropico. Le perversioni, le paure cui accenna, sono tutte reali, attuabili, imperfette, oscene, umane e dalla loro descrizione emerge un senso di tolleranza e comprensione. L’autore scrive il paradigma di una fantascienza che usa lo spazio interno, ossia quel territorio psicologico nel quale si incontrano, fondendosi, il mondo interiore dello spirito e il mondo esteriore della realtà. E così, in un’era in cui il progresso scientifico si moltiplica e ingloba l’uomo sempre più al suo interno, l’invenzione fantastica risulta essere già data e allo scrittore è offerta la possibilità di produrre, appunto, “l’invenzione della realtà” che spesso coincide proprio con i desideri più nascosti e indicibili.
Come affermava lo scrittore e saggista Sergio Solmi, uno dei compiti della fantascienza è quello di costruire un immaginario materializzato, che si possa toccare, conoscere e vedere, e allora alzi la mano di nuovo chi, almeno per una volta, non abbia voluto buttare fuori di sé i desideri più osceni solo per toccarli, conoscerli e vederli.
Bibliografia:
J. G. BALLARD, Introduction, in ID., The Complete Short Storie 1956-1962, London, 2001, trad. di R. Romanelli, Tutti i racconti. 1956-1962, a cura di A. Caronia, Fanucci, Roma, 2003.
S. SOLMI, Divagazioni sulla science-fiction: l’utopia e il tempo in ID., Poesie, meditazioni e ricordi, Adelphi, Milano, 1983.
Per gli estratti del racconto, si è fatto riferimento alla traduzione di Nausikaa Angelotti pubblicata nella rivista Sangarana.
L’autrice Maria Lisa Di Lanzo:
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