PISA – Un evento tanto importante come il centocinquantenario di una delle maggiori istituzioni culturali dell’intero panorama cittadino non poteva che essere inaugurato se non con una massiccia partecipazione del pubblico (locale e non) e dei rappresentati delle autorità; ecco che un evento etichettato con il nome dal gusto un po’ rétro di “concerto di gala” diviene un’occasione di coesione e di crescita sociale: attraverso la condivisione della cultura intesa come momento di accrescimento personale e collettivo, attraverso la partecipazione a un momento di particolare importanza per la civitas, attraverso la celebrazione di uno spazio – quello del teatro – in cui ogni cittadino è in grado di trovare la propria dimensione. Tutto questo può avvenire anche tramite il semplice programma di un concerto, proprio come è avvenuto domenica 24 settembre a Pisa, dove si è dato ufficialmente inizio alle celebrazioni per i 150 anni del Teatro Verdi.
Pensare a una connotazione tanto politica (nel senso di riferita ai πολίτης, ai cittadini) di questo concerto non è affatto errato, dato che collima perfettamente con quanto aveva annunciato il direttore artistico Stefano Vizioli già all’indomani dal suo insediamento: «Voglio che il Teatro Verdi sia una casa aperta a tutta la città». Non deve fare quindi meraviglia la scelta di organizzare un grande concerto per avvicinare ancor di più i pisani al loro teatro, specie in un momento unico come quello fornito dalla ricorrenza. Ed è stato davvero commovente constatare quanto ampia e sentita sia stata la risposta da parte del pubblico, che ha gremito la sala grande del teatro in questa occasione di festa. Un pubblico composto sì dagli habitué del Verdi, ma anche da molte persone venute da altre città della regione e da giovani. Un pubblico variegato, entusiasta, intelligente, che ha deciso di concedersi al programma previsto per il concerto, un programma (è bene sottolinearlo) molto particolare per scelte e repertorio affrontati.
Qual era il rischio maggiore di questo concerto? Che si trasformasse in un blando jukebox dei più celebri brani operistici, insomma in un’ennesima esecuzione dei soliti pezzi nazional-popolari, riducendo il tutto a mero intrattenimento. La grande intelligenza nello scegliere i singoli punti del programma è stata innanzitutto il dividere il concerto di due sezioni – la prima dedicata a Giuseppe Verdi, cui il teatro è intitolato, e l’altra all’opera che ha inaugurato il teatro il 12 novembre 1867, vale a dire il Guglielmo Tell di Gioachino Rossini – e in secondo luogo l’aver saputo selezionare brani che esulano dai normali contesti concertistici: in questo modo accanto a pezzi celeberrimi come la Sinfonia dal Nabucco o al Brindisi di Traviata hanno fatto la loro comparsa brani conosciuti ma poco eseguiti in situazioni simili (ad esempio Parmi veder le lagrime da Rigoletto o Ella giammai m’amò dal Don Carlo) o addirittura sconosciuti ai più, come nel caso della splendida aria Dall’infame banchetto… Tu del mio Carlo al seno, tratta da I Masnadieri. Dare agli spettatori un repertorio in cui si muovono abbastanza a loro agio ma con scelte particolari per generare attesa, curiosità, far apprendere che Verdi non è solo «zum pa pa» (cosa di cui è convinta la maggior parte della critica tedesca), e che il Guglielmo Tell non è solo la famosa “carica” dell’ouverture; questi sono i buoni presupposti per un concerto che non sia solo di intrattenimento ma che sia, come detto già sopra, un momento di crescita e di condivisione, di dialogo e di confronto.
Naturalmente, per essere poste in atto tutte queste situazioni devono essere stimolate anche da una buona esecuzione (altrimenti come può l’inesperto scoprire la differenza tra un’esecuzione buona, una cattiva e una eccellente?) e si può ben dire che la performance della prima parte del programma – quella verdiana – sia stata molto buona, se non ottima, a partire già dalla summenzionata Sinfonia del Nabucco che ha aperto il concerto: splendido il piglio concitato, sanguigno (verrebbe da dire quasi mutiano!) evocato dal M° Francesco Pasqualetti e così ben esternato da un’infuocata Orchestra Arché. Proprio l’orchestra può ben dirsi la “vincitrice morale” di questa prima sezione, in particolare grazie ai magnifici colori che ha saputo tessere: i più efficaci sono stati senza dubbio quelli più cupi e meditativi che permeano le arie de I Masnadieri e Don Carlo.
A proposito di Don Carlo, è doveroso segnalare l’ottima performance del baritono Claudio Sgura, che nella “sezione verdiana” ha interpretato l’impervia aria Per me giunto è il dì supremo, un passo straordinariamente difficile sia per la tinta assai peculiare, sia per la forma, che fonde caratteristiche tipiche dell’aria e del recitativo.
Parlando in termini di gusto personale, avrei preferito una direzione maggiormente orientata al piano e pianissimo (dinamica in cui, peraltro, la voce di Sgura acquista un timbro morbido e davvero molto bello), ma non si può negare che sia stata un’esecuzione di ottimo livello. Interessante anche l’interpretazione della celebre meditazione Ella giammai m’amò da parte del basso Roberto Scandiuzzi, la cui resa è stata ancor migliore grazie al particolare timbro del cantante, a “grana grossa” e ruvido in modo molto piacevole. Gradevoli anche l’aria dello sfacciato Duca di Mantova Parmi veder le lagrime, interpretata dal tenore Enea Scala, e il coro dei L’mbardi alla prima crociata, O Signore dal tetto natio, che ha visto protagonista l’ingente coro composto dal Coro dell’Università di Pisa con la partecipazione del Coro Laboratorio Lirico San Nicola e Coro Bruno Pizzi.
L’unico tasto dolente di questa prima parte (e, in tutta onestà, anche della seconda) è stata l’esecuzione del soprano Patrizia Ciofi, che purtroppo non è stata all’altezza della propria fama. Per ovviare alla compilazione di una sterile lista di motivazioni – prima fra tutte la mancanza di una dizione chiara – ci si limiterà a dire che l’idea di canto che il M° Ciofi ha portato sulle tavole del Verdi è davvero molto lontana da quella di chi scrive.
Se l’esecuzione della parte verdiana del concerto è stata buona e a tratti ottima, la parte rossiniana è stata superlativa. Cantanti, coro e orchestra, sapientemente guidati dalla bacchetta e dal magnifico gusto del M° Pasqualetti, hanno raggiunto vette assolutamente notevoli, tanto da far quasi rimpiangere il fatto che solo metà concerto fosse dedicato al Guglielmo Tell! Il finale dell’Atto I (Nume pietoso, Dio di bontà) così come l’annoso trio Allor che scorre de’ forti il sangue! hanno chiarito immediatamente l’altissimo livello dell’esecuzione rossiniana, complice anche l’entrata in scena del soprano Francesca Salvatorelli, del mezzosoprano Silvia Regazzo e del tenore Matteo Mezzaro, che si sono mirabilmente amalgamati con i cantanti già esibitisi nella prima metà del concerto.
Tuttavia chiunque abbia assistito al concerto concorderà sul fatto che l’apice è stato toccato con l’esecuzione dell’aria O muto asil del pianto, seguita dalla cabaletta Vendetta!… Corriam, voliam. Non può che esistere un aggettivo per definire l’interpretazione di Enea Scala: insuperabile. Ogni considerazione in merito è superflua, anche alla luce delle tre ovazioni ricevute dal tenore, una al termine dell’aria e due dopo la pirotecnica cabaletta, tanto che ha dovuto far ritorno sul boccascena del Verdi per ricevere il secondo tributo da parte del pubblico. La sua superba vocalità, limpida, intensa e meravigliosamente flessibile, ha conquistato ogni singolo spettatore.
Il brano conclusivo – Tutto cangia, il ciel s’abbella – ha richiamato sul palco tutti gli interpreti che si sono avvicendati nel corso della serata e il loro congedo è andato a sovrapporsi a quello di Rossini: gli uni prendevano congedo dal pubblico pisano e da un concerto straordinariamente riuscito, l’altro dal mondo dell’opera. Forse è proprio per questo motivo che solisti, orchestra e coro hanno saputo interpretare tanto bene il carattere di questo “commiato”: maestoso e solenne, certo, ma anche velato da un po’ di commozione e di nostalgia. Il testo del libretto, però, lascia anche un messaggio di speranza, un messaggio che ci auguriamo rappresenti il presagio di un lungo futuro di successi per il Teatro Verdi:
Tutto cangia, il ciel s’abbella,
l’aria è pura.
Il dì raggiante.
La natura è lieta anch’ella.
E allo sguardo incerto, errante,
tutto dolce e nuovo appar.
Photocredit: Imaginarium Creative Studio
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Sia lodato il cielo, un articolo di critica che cita il coro invece che considerarlo un mero accessorio trascurabile (come hanno fatto testate più “quotate”)!!!
Grazie per il commento. La preparazione dei cori per noi è stata estremamente stimolante seppur faticosa, e su questo bisogna ringraziare i maestri M. Bargagna, S. Barandoni e F. Pasqualetti che ci hanno dato una lettura affatto nuova e viva di brani talmente cantati e ricantati da essere ormai coperti da una patina di “usato”. Sentire che, almeno per una parte del pubblico, l’esecuzione è arrivata a segno, è un grande successo.