Giuseppe Verdi, il “Trovatore” e il crollo della tradizione

È impossibile parlare di un’opera come Il Trovatore senza accennare, seppur brevemente, al particolare contesto che l’ha generata: si tratta infatti di una tappa fondamentale per giungere allo stile compiutamente maturo di Verdi e che trova la sua naturale collocazione nel decadimento della tradizione operistica.

Come spiega il musicologo Julian Budden nel secondo tomo del suo fondamentale trittico Le opere di Verdi, fino al 1850 è facile rintracciare, come arterie principali della tradizione operistica, il melodramma post-rossiniano e il grand-opéra, dopodiché individuare un’effettiva “scuola” diventa assai complesso. Naturalmente non si tratta di un mutamento senza cause: l’opera si era ormai fossilizzata in una consolidata tradizione, formata da innumerevoli regole e procedimenti che consentivano di confezionare un “prodotto” dietro l’altro, che per compositori e pubblico iniziava a sapere di stantio. Se all’estero questa tradizione iniziava già a venir meno (in Francia il grand-opéra iniziava a soffrire la ventata di novità portata da Bizet, Gounod e Offenbach; in Russia si andava affermando uno stile più autoctono a causa dell’attività del Gruppo dei Cinque; in Germania si andava sempre più affermando la luminosa stella di Wagner), anche in Italia iniziavano, seppur più tardi rispetto all’estero, a percepirsi le prime scosse che porteranno poi al crollo della tradizione. Perché da noi tanto ritardo? Innanzitutto perché le istanze del romanticismo europeo – in qualsiasi arte – hanno sempre faticato a penetrare a sud delle Alpi, inoltre bisognava fare i conti con «la forza unica della personalità di Rossini che codificò, se non creò egli stesso, le regole» cui la tradizione operistica italiana obbediva. Fu lo stesso Verdi uno degli artefici del crollo di questa tradizione.

Giuseppe Verdi

Quando iniziò la sua carriera con l’Oberto (1839), la tradizione era giunta al suo acme e aveva in Gaetano Donizetti il suo maggior rappresentante, ma già con Nabucco (1842) sferrò un colpo fatale agli operisti più gracili: autori come Pacini, Luigi e Federico Ricci, che già avevano mal resistito all’avvento di Donizetti e Bellini, furono definitivamente “fuori dai giochi”. Budden sottolinea come l’impatto con il primo capolavoro verdiano abbia sortito anche l’effetto di «polarizzare il mondo teatrale tra Verdi e Mercadante, l’uno, come in precedenza, preferito dal pubblico, l’altro prediletto dagli accademici», ma bisogna anche tener presente il motivo principale per cui gli autori del primo romanticismo non sopravvissero alla fine del melodramma post-rossiniano: l’incapacità di coniugare la vecchia struttura a numeri chiusi con le nuove esigenze espressive del teatro, ossia la creazione di un dramma musicale unitario dove le ragioni della musica non sovrastano quelle della drammaturgia, e più che a un effettivo sviluppo del dramma si tendeva a complicare la vicenda, riempiendola di elementi superflui, un gusto che si riflette anche nelle scene d’assieme, sempre più piene e roboanti («il solito intruglio, anche se in dosi maggiori») e nell’orchestrazione.
Verdi invece andava ricercando esattamente il contrario: ai librettisti chiedeva di usare la “parola scenica” e raccomandava sempre di «non dire mai con due parole quel che si può dir con una» per non nuocere all’efficacia del dramma, mentre Ricci, Mercadante e Pacini ingrassavano i ranghi delle proprie orchestre, Verdi snelliva i suoi, alleggerendo e affinando la propria scrittura.
Il primo prodotto pienamente compiuto della rivoluzione teatrale verdiana è senza dubbio Rigoletto, che si presentò al pubblico del 1851 come un melodramma non più imbrigliato nella convenzione della pausa tra un numero musicale e l’altro, ma come – per usare le parole dello stesso Verdi – «una filza interminabile di duetti», in cui ogni brano confluiva direttamente nel successivo, una forma estremamente affine al “dramma musicale” di wagneriana memoria.

Il Trovatore, opera immediatamente successiva a Rigoletto e facente parte (assieme a questo e alla Traviata) della cosiddetta trilogia popolare, si muove sempre su questa particolare concezione dell’opera ma si propone al pubblico con una struttura molto più rassicurante. Non a caso viene definito, a questo proposito, come al pannello più classico del trittico popolare, dato che si assiste a una sorta di ripresa del melodramma a numeri chiusi.
Quella che può sembrare un’evidente contraddizione è in realtà una delle caratteristiche dello stile verdiano: parlando in termini (molto) generici, nell’arco che racchiudere le opere da Rigoletto ad Aida, Budden ravvisa un peculiare modo di procedere, ossia che le opere procedono per due rami paralleli, uno innovatore e uno conservatrice. Al primo ramo appartengono Rigoletto, La Traviata, Simon Boccanegra, La Forza del Destino e Don Carlo, mentre al secondo Il Trovatore, I Vespri Siciliani, Un Ballo in Maschera e Aida. Questa tendenza a compiere sempre un “passo indietro” non deve meravigliare se si tiene presente che si sta parlando di un autore che ha sempre dichiarato di voler essere vicino al proprio pubblico; in altre parole: in un primo momento Verdi si muove per trovare nuove strade, nuove soluzioni, per poi far ritorno a forme ormai note ma arricchendole con i frutti dell’esperienza.

Salvadore Cammarano

È lecito presumere che anche per questo motivo Verdi scelse di rivolgersi non al consueto Piave ma a un autentico specialista del teatro d’opera come Salvadore Cammarano, librettista di alcuni dei melodrammi più amati dal pubblico dell’epoca (scrisse, per non fare che degli esempi, Lucia di Lammermoor, Pia de’ Tolomei, Roberto Devereux e Maria di Rohan per Donizetti, Saffo per Pacini e La Vestale, Orazi e Curiazi e Virginia per Mercadante). Non si trattava della prima collaborazione con il maestro bussetano – difatti per Verdi aveva già scritto i libretti di Alzira, della Battaglia di Legnano e della Luisa Miller – pertanto non era un “salto nel buio” ma una scelta ponderata. Nonostante la stretta collaborazione (fino al Trovatore, Verdi e Piave avevano prodotto sei opere, più avanti ne seguiranno altre quattro), Verdi non considerò mai il buon Piave un grande poeta, tutt’al più un bravo verseggiatore che però necessitava della vicinanza del compositore. Al contrario, vedeva in Cammarano il vero poeta operistico (in fondo si rivolse proprio a questi per quel Re Lear che purtroppo non vedrà mai la luce).

La riduzione in libretto dell’oscuro dramma El Trovador di Antonio García Gutiérrez – autore che fornirà a Verdi il soggetto per un’altra opera, il Simon Boccanegra –  era tutt’altro che semplice, data la natura contorta della trama.
Quanti oggi accusano Cammarano di aver scritto un libretto fin troppo complicato non rendono affatto giustizia, non solo all’ottimo testo che fornì a Verdi, ma anche alla grande opera di semplificazione e chiarificazione nei confronti del lavoro di Gutiérrez; inoltre non tengono conto nella matrice squisitamente popolare di questo dramma, che ricorda molto da vicino quelli che chiamiamo “racconti attorno al fuoco”. Basti pensare a quanto spesso i personaggi ricorrano all’espediente del racconto nel corso dell’opera e al suo finale a sorpresa, esattamente come nei racconti popolari.

Purtroppo il poeta morì proprio mentre stava lavorando a questo suo ultimo libretto, ebbe solo il tempo di completarlo prima che la morte gli togliesse la penna. Se si legge questa versione del Trovatore, tutt’oggi conservata a Villa Sant’Agata, si può facilmente notare come sia sostanzialmente ultimato e differisce dal trattamento scritto da Verdi solo per pochi dettagli. A questo punto fece la sua entrata in scena il poeta Leone Emanuele Bardare, ma in questa vicenda il suo ruolo fu assai modesto: si limitò a integrare il libretto originale con nuove parti per Leonora e ad apportare alcune modifiche laddove richieste da Verdi; il suo nome non comparve mai sul libretto dell’opera, quasi certamente su richiesta di Verdi per rispetto alla memoria di Cammarano.

La decisione di richiedere a Bardare l’utilizzo di forme classiche è una diretta conseguenza sia del fatto che al momento Verdi non poteva contare su un bravo librettista sia che, in ogni caso, l’impianto di Cammarano era di stampo molto tradizionale, articolato in scene grandi ma imperniate sulla rigidità del numero. Verdi allora riempì i vari quadri dell’opera con un’esplosione musicale: mai prima di allora il suo ingegno melodico aveva prodotto risultati tanto infiammati (termine alquanto calzante per quest’opera). Se buona parte del flessibile Rigoletto si sviluppava prendendo le mosse da un recitativo, nel Trovatore i recitativi sono ridotti all’essenziale. Se nella prima opera si assiste a un continuo svilupparsi dell’azione, nella seconda questa è condensata in alcuni momenti specifici (il duello dell’Atto I, il rapimento di Leonora nell’Atto II, la cattura di Azucena nell’Atto III, il tentativo di salvataggio di Manrico da parte di Leonora, la sua morte e l’ultimo colloqui con l’amato nell’Atto IV).
Molto maggiore è lo spazio riservato a quella che il critico Claudio Casini chiama “una dimensione alternativa”, quella del racconto, del ricordo, della fantasticheria in cui i personaggi si lasciano trasportare altrove. Basti pensare all’incipt dell’Atto I, dove Ferrando racconta con tono quasi da cantastorie la vicenda dei due figli del Conte di Luna:

«Di due figli vivea padre beato
il buon Conte di Luna:
fida nutrice del secondo nato
dormia presso la cuna.
Sul romper dell’aurora un bel mattino
ella dischiude i rai;
e chi trova accanto a quel bambino?»

oppure alla scena seguente, in cui Leonora racconta a Ines dell’apparizione del Trovatore, il quale subito dopo annuncia il suo arrivo con la romanza fuori scena Deserto sulla terra, provenendo da quell’altrove che è quasi il cuore dell’opera, un’alternativa metafisica al mondo sensoriale. Anche la zingara Azucena, ispirata e urlante come una sibilla, vive con la mente e lo sguardo perennemente rivolti verso i ricordi, persi in un altrove lontano, in un tempo e uno spazio lontani da quelli in cui agisce. Questa sensazione di indeterminatezza di tempo e di spazio è ulteriormente rafforzata dall’ambientazione dell’opera: sempre nell’oscurità, di notte, tutt’al più “sul romper dell’aurora” ma mai alla luce del sole, a rappresentare un altrove che è quasi metafora dell’oscuro e primitivo senso del nascere e del morire. Non a caso Azucena è l’unica madre che appare nell’intero corpus verdiano (escludendo Falstaff, che però non dev’essere considerato come accostabile alle altre opere).
Tutto questo fa sì che, se si legge l’opera in senso tradizionale, troviamo che l’intreccio appare su due piani distinti: il presente e il ricordo, la realtà e l’immaginazione, la scena e il fuori scena, ed è la musica a saldare questi due piani grazie a un’intensità mai raggiunta prima da Verdi, che in questo Trovatore evoca una musica tanto reale che quasi può essere toccata, come se fosse il tessuto connettivo dell’intera opera.

Proprio nella scrittura musicale si assiste alla più importante innovazione, che segue direttamente quella apportata in Rigoletto: se Gilda e la maledizione erano rappresentate da due note caratteristiche (rispettivamente il mi e il do), qui per suggerire determinati personaggi vengono usate tonalità caratteristiche. Questo aspetto è estremamente rilevante per le due protagoniste, ossia i due poli entro cui si muove turbinosamente il nostro Trovatore. Leonora viene rappresentata da la bemolle maggiore e dalle sue tonalità vicine, mentre Azucena da mi minore (pur oscillando ambiguamente tra questa e sol maggiore, il primo associato alla vendetta e il secondo al suo amore per Manrico, e come a confermare che si tratta del vero motore dell’opera racchiude nella sua influenza anche la minore e do maggiore) e Manrico, nonostante sia l’eponimo dell’opera, non possiede una propria tonalità e viene attratto ora in quella di Azucena, ora in quella di Leonora. Inoltre è interessante notare che questo particolare impiego della tonalità influenza direttamente l’architettura del melodramma perché – complice la struttura stessa dell’opera – da questo deriva tutta una serie di scene dominate ora da Azucena ora da Leonora e quindi dalle rispettive tonalità.
Alla luce di tutto questo appare più che evidente che solo guardando la sua superficie si può definire Il Trovatore come “la più tradizionale” delle opere della trilogia popolare, una superficie sotto cui si cela un oscuro mondo che obbedisce a un proprio esclusivo sistema di leggi.

lfmusica@yahoo.com

Luca Fialdini
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