Il tema del fiore ritorna spesso nelle opere di Pietro Mascagni, quasi volesse accompagnare particolari momenti con l’idea di un profumo: dal «fior di Giaggiolo» di Lola in Cavalleria Rusticana alla grande siepe fiorita di Amica (e il mazzolino di fiori di Giorgio), dal canto dei fiori di Lodoletta ai «pochi fiori» della romanza di Suzel ne L’Amico Fritz, passando per le rose e le mortelle del Guglielmo Ratcliff e le poco celate allusioni con i gigli di Folco in Isabeau. Il perfetto coronamento di questo lungo affresco floreale è Iris, la lunga fiaba orientale che si conclude – peraltro – con la spiegazione mitologia della nascita dell’omonimo fiore.
La sorte operistica di Mascagni è davvero curiosa: pur avendo composto quindici opere (un quantitativo notevole per un compositore del Novecento), solo una di queste è stabilmente entrata in repertorio: Cavalleria Rusticana. È dunque possibile che l’invenzione musicale di Mascagni si sia spenta dopo un solo lavoro? O che tutti gli altri quattordici titoli siano, artisticamente e musicalmente, di scarso rilievo?
La risposta ad entrambi i quesiti è la stessa: no. Non è possibile parlare concisamente dei meccanismi del teatro lirico e del suo pubblico, ed è quindi impossibile fornire in questa sede una solida spiegazione a questo problema; ad ogni modo sicuramente hanno un loro peso il gusto del pubblico (quello italiano, per quanto concerne l’opera, tende ad essere di una volubilità e di una superficialità disarmante) e l’attività poco accorta di quei direttori artistici che non si sforzano minimamente di uscire dalla cerchia dei titoli “di sicurezza” per la cassa.
Anche Iris fa parte del novero dei titoli obliati, a torto perché si tratta di un’opera non solo valida ma anche ardita e ricca di sperimentazioni, la più rivoluzionaria del il catalogo mascagnano.
Come è noto, il casus belli di Iris è il forte interesse per l’Oriente e per l’esotico crescente nella cultura dell’Europa fin de siècle: il librettista Luigi Illica propose a Mascagni un’opera giapponese che il Maestro di Livorno accolse subito con entusiasmo, tanto che studiò in modo approfondito le caratteristiche peculiari della musica giapponese: l’accordatura degli strumenti, alcuni strumenti e percussioni caratteristici, il sistema armonico (da qui, ad esempio, l’ampio ricorso a scale esatonali). Fondamentale per la conoscenza diretta di questo genere tradizionale di musica la collezione etnografico-musicale Kraus, ospitata – oggi come allora – all’interno del Museo degli Strumenti Musicali della Galleria dell’Accademia di Firenze: il gong, i cimbali, il shamisen incontrati nella collezione sono stati poi inseriti nella partitura. Tuttavia Mascagni “ruba” al Giappone molto di più di qualche strumento esotico: riesce a riprodurre quell’aura di staticità, compressa in un ossessivo ritmo binario, dove però non manca una spiccata cantabilità, sovente impregnata d’una grazia alata come di rado Mascagni è riuscito a tirar fuori dalla penna. Significativa è anche la particolarissima accordatura richiesta ai contrabbassi e così specificata in partitura:
A questo punto in ognuno scatta naturalmente un parallelismo con la ben più celebre Madama Butterfly di Giacomo Puccini. Non è un’idea sbagliata: due compositori toscani (peraltro di due province molto vicine), due soggetti analogamente nipponici, in entrambi uno studio molto approfondito sulla musica tradizionale giapponese. Cosa c’è di diverso? L’intenzione. Puccini ha la pretesa di trasportare sul palcoscenico il Giappone autentico: lo fa attraverso veri brani di musica giapponese, che sapientemente ingloba nella partitura, lo fa proponendoci una vicenda drammaturgicamente solida ed esigendo, da buon esponente del verismo, la maggior aderenza possibile alla realtà anche nei costumi.
Uno dei motivi che ha causato il decadimento presso un certo tipo di pubblico di Iris è l’errata valutazione del genere in cui questa debba essere inserita e cioè non quello del verismo ma quello del simbolismo. Il Giappone tratteggiato da Mascagni in iris non è storicamente più attendibile dell’Egitto della Zauberflöte di Mozart: è un’ambientazione fiabesca, dove la realtà è piegata alle esigenze del teatro. Certo, esiste un retroterra di – come già detto – studi musicali e non solo sull’argomento, ma questi sono funzionali non a riportare fedelmente il Giappone sulla scena ma semplicemente a sostenere l’illusione di una terra onirica e fiabesca, così come fiabesca e onirica è la trama stessa del melodramma.
Anche la trama ha subito spesso dure critiche: troppo complessa, non consente di accostarsi subito alla vicenda del dramma. Eppure presenta dei temi oggi incredibilmente attuali, probabilmente molto più vicini alla nostra sensibilità odierna che a quella dei nostri avi nel 1898: violenza sui minori ai limiti della pedofilia (ricordiamoci che nell’economia dell’opera la povera Iris, che prima viene rapita e abbordata dal nobile Osaka e poi rivenduta a una casa di piacere, ha 14 anni), la vita nelle discariche, il degrado, l’erotismo nelle sue molteplici accezioni, in particolare le più torbide (il linguaggio dell’aria della piovra è fin troppo esplicito e richiama da vicino una raccolta di stampe erotiche di Hokusai, in particolare uno intitolato Sogno della moglie del pescatore).
Molto misterioso l’inanellamento degli atti: i primi due costituiscono un blocco narrativo unitario ed efficace, dove la drammaturgia ha un suo mordente, mentre il terzo atto giunge in una foggia quasi incomprensibile, con quel suo inizio incerto e la serenata alla luna cantata dall’interno della fogna in cui si trova Iris (un colpo di teatro che fa presagire certi meccanismi tipici del futuro espressionismo tedesco). In questo atto però si tirano le somme dei vari caratteri del dramma: da una parte i tre differenti egoismi dei personaggi maschili, dall’altra l’ingenuità di Iris che in questo finale viene sublimata in un’ottica assolutamente metafisica e trasfigurata in un fiore, appunto l’iris, riacquistando così la dignità perduta. Tutto questo è sostenuto unicamente dalla musica, è lo stesso Mascagni la colonna portante della conclusione della sua opera più avveniristica e che darà i suoi frutti non nella cultura italiana ma in quella mitteleuropea, con la sua attenzione al simbolismo, a ciò che è non detto ma sottinteso, a ricercare un profondo significato in ciò che avviene sul palco e nella sua dimensione che deforma la realtà.
lfmusica@yahoo.com
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