Quella “Wally” salvata dagli interpreti

LUCCA – Nella sala grande del Teatro del Giglio si è riunito un folto pubblico, richiamato nel capoluogo anche da svariate province della regione, per accogliere un grande ritorno: dopo trent’anni viene messa nuovamente in scena La  Wally  di Alfredo Catalani. La rappresentazione è stata addirittura preceduta da un saluto del sindaco che ha sottolineato l’importanza culturale dell’evento (brevissimo excursus: fa molto, molto piacere che in tutta la regione ci sia per lo meno un’amministrazione comunale tanto attenta e partecipe circa la vita del proprio teatro).

Eppure, nonostante tutte le ottime premesse, questa Wally non decolla. Né musicalmente, né scenicamente. Bisogna sicuramente tener presenti le difficoltà della partitura e del libretto, nel senso che la prima è sicuramente più impegnativa rispetto alla media che solitamente si riscontra nei cartelloni dei nostri teatri, mentre il secondo pone problematiche di non facile soluzione (una su tutte la valanga); ciò detto, non si possono non notare alcuni aspetti che hanno certamente inficiato il risultato complessivo.

Serena Farnocchia (Wally) e Francesco Facini (Stromminger)

Il primo di questi è la regia di Nicola Berloffa. In una parola: inesistente. Non una direzione, non un’idea, insomma inconsistente. Anche la scelta di trasportare l’azione dell’Atto II dalla piazza di Sölden a quella che pare essere una stube non è delle più felici: invece di un fine gioco di coppie che volteggiano in mezzo alle quali si sviluppa la vicenda di Wally e di Hagenbach, ci si ritrova dinnanzi a una “danza” grottesca dove i due protagonisti se ne stanno bellamente in vetrina e niente più. Analogamente poco felice anche l’idea del rapporto sessuale tra Wally e Gellner perché uno dei fili conduttori della vicenda è comunque la verginità di Wally, la sua purezza (la faccenda della neve non è casuale), e il consumare questo rapporto semplicemente non ha nulla a che vedere con il personaggio. Wally è sensualità, è ardore, è provocazione, certo, ma non giunge mai all’atto e questo è uno dei temi cardine dell’intera opera. 

Le scene di Fabio Cherstich sono anche piuttosto suggestive (ho apprezzato in particolare quella dell’ultimo atto), specie se sostenute dal disegno luci di Marco Giusti, e molto belli anche i costumi di Valeria Donata Bettella eppure tutto quello che emerge dall’allestimento è una bidimensionalità generale: una curiosa tavola dipinta raffigurante scene di vita congelate dell’Alto Tirolo, come quelle che si possono trovare sulle locali bancarelle natalizie. Pittoresco, ma poco più. La mancanza di una vera direzione registica ha purtroppo colpito duramente anche un allestimento magari non particolarmente innovativo ma nemmeno malvagio. 

L’aspetto musicale del titolo, che pure contiene dei momenti interessanti, non è stato esaltato in modo efficace; la direzione di Marco Balderi è vigorosa ma in molti punti manca di mordente e di accortezza: in alcuni frangenti risulta piuttosto grossolana e nemmeno troppo curata (esempio pratico: il crescendo delle battute 46-47 dell’Atto IV che principiando da un nervoso disegno ha questa salita impressionante che culmina in un fff grandioso, semplicemente non avviene, c’è un bisticcio tra archi e percussioni e poi sopraggiungono inaspettatamente gli ottoni), mentre in altri riesce a cavare dall’orchestra e dalla compagine canora dei colori diafani e mistici come nel finale dell’Atto III, particolarmente riuscito. Ammettiamo che forse l’Orchestra Filarmonica Pucciniana non era particolarmente in forma, possibile, ma comunque la qualità della musica che proveniva dalla buca era piuttosto altalenante.

Serena Farnocchia e Zoran Todorovich (Hagenbach)

Anche l’apporto del Coro del Festival Puccini non è stato granché positivo: troppo ridotto, troppo esiguo per un titolo come La Wally (in particolar modo i tenori che così spesso devono cantare da soli) e soprattutto gestito piuttosto male a livello scenico dato che soprattutto nell’Atto I risultavano spesso sparpagliati sui vari livelli della scena, fattore che ha influito pesantemente sulla coesione dell’insieme. Inoltre il coro è apparso poco convinto di quel che stava facendo e a tratti visibilmente imbarazzato o smarrito (ad esempio nel corso della sopracitata “danza”), cosa che ha aumentato la sensazione che non tutto stesse andando come previsto.

La rappresentazione di venerdì 19 gennaio è stata sostenuta e (per quanto possibile) salvata solo e unicamente dal cast vocale: se i solisti non ci avessero creduto così tanto e fino in fondo sarebbe stata una recita da accantonare. Dal basso Graziano Dallavalle (Il Pedone di Schnals) fino alla stessa protagonista Serena Farnocchia, ognuno di loro è stato più che prezioso per la riuscita della rappresentazione: una sola voce fuori posto e tutto sarebbe crollato, una sola prova poco convincente e lo spettacolo si sarebbe accartocciato su se stesso. Con questo non si vuole dire che la prova dei cantanti sia stata la perfezione, ma che sono stati convincenti e hanno saputo comunicare molto bene con il pubblico. Si potrebbe dire che avrei preferito che la Farnocchia enfatizzasse ancor di più il carattere “schizofrenico” di Wally, così come avrei preferito che la splendida voce di  Zoran Todorovich (Hagenbach) risuonasse meno eroica e stentorea, ma sarebbe alquanto ingeneroso verso la compagine che ha reso il miglior servizio a Catalani quella sera. La flessuosa vocalità di Paola Leoci (Walter) risulta perfettamente complementare con il carattere di Wally, che la Farnocchia ha reso in modo così netto e preciso, senza orpelli, che invece trova il suo opposto in Afra, qui interpretata dalla bravissima Irene Molinari. La controparte maschile non è da meno, dato che vanta la solida e autorevole presenza di Francesco Facini, sostanzialmente lo Stromminger perfetto, e anche il Gellner di Marcello Rosiello, interpretato in modo asciutto ma particolarmente intenso, in modo da renderne tangibili le contraddizioni interiori, i dilemmi, i travagli. Ognuno di questi, nel proprio ruolo, è stato ineccepibile e la dimostrazione è facilmente rintracciabile nei lunghi applausi che li hanno salutati prima di congedarsi dal proscenio.

Photocredit: Lorenzo Breschi

lfmusica@yahoo.com

Luca Fialdini
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