L’opera delle metamorfosi ovvero quando i registi “creano”

Recentemente ha suscitato stupore e critiche la decisione di alterare il finale della Carmen di Bizet: invocando un qualche «messaggio culturale, sociale ed etico» (invero, piuttosto confuso e contraddittorio), nel momento fatale dell’opera la bella gitana estrae una rivoltella e fa fuori Don José e al termine della rappresentazione il regista Leo Muscato viene accolto da un generoso profluvio di fischi. Lasciando a latere la questione della qualità dello spettacolo, cui non ho assistito, una risposta tanto compatta da parte del pubblico merita comunque alcune riflessioni.

Così fan tutte all’Opéra national de Lyon, 2014

Naturalmente non è questo il primo caso in cui un regista di arroghi il diritto di modificare in modo importante un aspetto fondamentale dell’opera (anche se è la prima volta che mi capita di sentire che si sia effettivamente ribaltato il finale); vorrei richiamare alla vostra memoria i seguenti capolavori: la Tosca tra i nazisti (Opera Australia, 2014, regia di John Bell), il Così fan tutte ambientato durante una festa sulla spiaggia, dove i due principi albanesi sono vestiti da motociclisti con bandana (Opéra national de Lyon, 2014, regia di Adrian Noble), la Cenerentola di Rossini allestita in una bettola di periferia, il “Bar Magnifico” con tanto di insegna al neo scalcinata, in cui troneggiano foto di cantanti e calciatori italiani (Théâtre des Champs-Elysées, 2003, regia di Irina Brook) e il beethoveniano Fidelio in un cantiere edile, con tanto di caschi arancioni, geometra in giacca e cravatta e nastri segnaletici (Teatro alla Scala, 2014, regia di Deborah Warner).

Fidelio al Teatro alla Scala di Milano, 2014

Quelli riportati sopra non sono che alcuni degli innumerevoli casi di pessimi allestimenti (e, sovente, concorre anche una pessima regia). Tra l’altro, spesso ha luogo una forte contraddizione: tanto l’allestimento è ripugnante quanto l’esecuzione buona, se non addirittura ottima. Particolarmente interessante il caso del Fidelio scaligero: la direzione di Daniel Barenboim e l’esecuzione da parte del cast e dell’orchestra del Piermarini sono state eccellenti, l’allestimento come sopra, ma c’è stato anche un pesante intervento da parte della regista e del direttore molto meno evidente. Chi conosce l’opera sa che in Fidelio non ci sono i recitativi secchi come nell’opera italiana, semplicemente questi vengono recitati come nel teatro di prosa (similmente a quanto avviene nel Singspiel, nell’operetta e nel musical); ebbene, dato che si era scelto di ambientare l’opera in epoca contemporanea, si è anche deciso di modificare il testo del libretto di questi recitativi per aggiornarli al linguaggio moderno. Un’operazione che solo a parlarne fa venir la pelle d’oca.

Tosca all’Opera Australia, 2014

Ciò che non si tiene conto nel compiere queste operazioni – esattamente come nella Carmen incriminata – è il fatto che si va a pigiare a forza il prodotto di una società antecedente (e che oggi non esiste più) in contenitori plasmati dalla nostra attuale società: il politically correct, il trash, l’essere molto espliciti senza lasciare quasi nulla al sottinteso, la provocatorietà. Si prenda il Don Giovanni rappresentato alla Scala nel 2011: nel momento in cui i personaggi intonano il sontuoso «Viva la libertà», sulla scena delle figure mascherate si apprestavano a consumare un’orgia. È volgare. E non perché chi scrive è un’Orsolina, ma perché è il voler rimarcare, esplicitandolo, un concetto che è già presente e palese, sebbene non venga non venga spiegato a chiare lettere (Mozart dà per scontato che non ce ne sia bisogno: nel Settecento si dava molto peso al non detto, al non visibile, un modo di pensare forse più intelligente del nostro). Oppure il sopracitato Così fan tutte: prendere un’opera scritta e ambientata nel 1790 e volerla forzatamente trasportare al 2014 significa trasportare al giorno d’oggi un modo di cantare, di parlare e di ragionare di oltre due secoli fa.

Macbeth al MET, 2008

Come spettatore ho una predilezione per gli allestimenti tradizionali, ma apprezzo anche le cosiddette «regie moderne»; ad esempio, ho molto apprezzato il Macbeth del Metropolitan del 2007 (con la regia, tra l’altro, di Adrian Noble) o l’adattamento cinematografico del Flauto Magico di Kenneth Branagh del 2006. Qual è il discrimine? Che un allestimento, che sia di stampo tradizionale o no, deve rispettare lo spirito dell’opera voluto dal compositore e dal librettista. Un’opera non è un canovaccio su cui un regista può scrivere la propria storia. Il regista può e deve interpretare, ma operando sempre nel rispetto della partitura e senza voler vedere a tutti i costi livelli di lettura inesistenti o addirittura aggiungerli di sana pianta. Se si vuole un’opera che parli della violenza o la prevaricazione sulle donne, si scelga un’opera dove questa tematica è radicalmente presente fin dalle prime intenzioni degli autori (penso a una Pia de’ Tolomei, o una Madama Butterfly) oppure se ne commissioni una ad hoc a un compositore, senza andare a deturpare il lavoro di altri. Bisognerebbe ripristinare l’antico anatema di Verdi, scagliato già nel 1847: «Allo scopo di impedire le alterazioni che si fanno nei teatri alle opere musicali, resta proibito di fare nelle mie opere qualunque intrusione, qualunque mutilazione, insomma qualunque alterazione che richiegga il più piccolo cambiamento, sotto la multa di cento franchi che io esigerò per qualunque Teatro ove sia fatta l’alterazione».

lfmusica@yahoo.com

Luca Fialdini
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