PISA – La stagione 2017/2018 del Teatro Verdi di Pisa termina con un trionfo. Dopo i successi della Pia de’ Tolomei, del Trovatore, del Girello, Stefano Vizioli chiude magistralmente il primo anno da direttore artistico sfoderando un ultimo, stupefacente, gioco di prestigio: L’Italiana in Algeri di Gioachino Rossini.
La prestigiosa produzione, che peraltro fa parte dei festeggiamenti per il 150° anniversario della morte di Rossini, si segnala innanzitutto per l’importante collaborazione di Ugo Nespolo, uno dei maggiori artisti all’interno panorama nazionale (e non) e che ha già un forte legame con Pisa: suoi i grandi pannelli esposti a San Michele degli Scalzi. Nespolo ha eccezionalmente ricoperto un duplice ruolo, avendo disegnato tanto le scene quanto i costumi per questa Italiana in Algeri ammantata di un’insolito alone pop. Insolito ma mai inappropriato, proponendo innovazione ma senza cambiare nemmeno una virgola del libretto o della partitura; da questo si evince una grande comunicatività tra l’artista, il regista (lo stesso Vizioli) e il direttore d’orchestra, il M° Francesco Pasqualetti, senza la quale il delicato equilibrio che Rossini richiede si sarebbe sicuramente infranto.
Particolarmente felice il binomio Nespolo-Vizioli, una collaborazione iniziata nel 1995 con l’Elisir d’Amore e proseguita poi nel 2007 con Madama Butterfy e nel 2015 con Veremonda, dove il lavoro di uno si fonde perfettamente con quello dell’altro, risultando complementare: da una parte Vizioli si dimostra, come di consueto, abilissimo nel saper inquadrare ogni dettaglio, ogni sfaccettatura, del teatro musicale, dall’altra Nespolo offre un impatto visivo notevole per eleganza e per l’accuratezza nel valutare in che misura intervenire, evitando soprattutto la facile tentazione dell’originalità a tutti i costi ma scegliendo un cammino ben più difficile, quello dell’adeguarsi al testo scritto.
È molto interessante notare con quanta facilità Vizioli e Nespolo abbiano saputo evidenziare alcune caratteristiche salienti de L’Italiana in Algeri, tanto a livello culturale quanto a livello psicologico, per poi ribadirle e chiarirle allo spettatore: è il caso del quartetto Per lui che adoro, in cui Vizioli dona un grande foulard alla protagonista Isabella mentre i tre uomini “rivali” si nascondono dietro ad una palma tendendo solo una mano, allora Isabella mentre canta versi volutamente ambigui, nel senso che ipoteticamente potrebbero essere rivolti a tutti e tre, fa scorrere il foulard da una mano all’altra. Quale modo migliore per rendere più esplicito il concetto che li sta tenendo in scacco tutti e tre? Analogamente chiarificatore e gustoso lo splendido sipario futurista realizzato da Nespolo, in cui campeggiano oltre a simboli ricorrenti nel corso dell’opera le parole Kaimakan e Pappataci (i due titoli onorifici complementari e antagonisti) ma anche Zang e Tumb, in omaggio al famoso testo Zang Tumb Tumb di Filippo Tommaso Marinetti. L’origine di questo richiamo al Futurismo è da ricercarsi direttamente nel testo rossiniano perché, per citare lo stesso Nespolo, «il finale del primo atto è un finale futurista, in cui nessuno capisce nulla e le parole regrediscono allo stato di semplici onomatopee». In particolare il lavoro di Nespolo, per complessità e quantità di citazioni e rimandi, meriterebbe di essere analizzato a parte senza dover essere confinato a non altro che poche righe.
Parlando del testo, cui si accennava sopra, è doveroso affermare fin da subito che ne è stata fornita una lettura eccellente da parte del M° Pasqualetti. Si prenda ad esempio l’incipit dell’ouverture, caratterizzato dal pizzicato degli archi: in quante esecuzioni ed incisioni, anche blasonate, il risultato non era che un timido pigolio o, peggio ancora, l’equivalente di sassi lanciati nello stagno? Fin dalla prima battuta il M° Pasqualetti ha chiarito il livello dell’esecuzione, riuscendo ad imprimere anche al pizzicato una dimensione musicale propria e non solo di mero orpello. Il suo gusto estremamente raffinato con la musica di Rossini acquisisce una brillante vitalità, capace di rendere con estrema chiarezza ogni sfumatura della partitura: dai momenti più schiettamente comici a quelli surreali, a quelli nostalgici, fino alle tinte più eteree e sensuali. Molto interessante la scelta dei tempi, eseguita in funzione dialettica alla situazione che Rossini voleva evocare, come nel celeberrimo finale dell’Atto I Nella testa ho un campanello dove il Maestro ha individuato un tempo eccessivo e forsennato, una velocità vorticosa che fagocita ogni possibile comprensione verbale e che in unica soluzione da una parte esalta la meravigliosa struttura musicale e dall’altra il caos e il clima surreale di questo assurdo finale.
Naturalmente nulla di tutto questo sarebbe stato possibile senza la presenza dell’Orchestra Arché, in questa esecuzione in stato di grazia, che ha seguito e concretizzato le indicazioni del maestro, dallo sfavillio dei legni agli scoppi imperiosi delle percussioni, dai momenti più surreali (così frequenti nell’Italiana in Algeri) a quelli più introspettivi e misteriosi; insomma per l’Orchestra Arché questo è stato un duello all’ultima nota ed è stata arrisa di sfolgorante vittoria.
Eccellente sotto ogni punto di vista il cast vocale – dal primo all’ultimo membro – cominciando dall’ottimo coro Ars Lyrica, formidabile per presenza scenica e per solidità nell’intonazione, risultando tanto ben amalgamato e compatto da essere percepito come un effettivo personaggio e non come una moltitudine. Venendo ai solisti, il giudizio non può che essere uno ed uno soltanto: ognuno, all’interno del proprio ruolo, è stato perfetto. Questo non significa che non ci siano state imprecisioni o scelte non sempre condivisibili (ad esempio il vizio fastidioso, comune a tutti i cantanti, di smettere di cantare alla fine del brano per prender fiato in vista dell’acuto conclusivo), ma che al cospetto dell’intera rappresentazione queste contano meno di zero.
I personaggi di contorno Zulma e Haly sono stati tratteggiati in modo impeccabile dai bravi Caterina Poggini e Alex Martini che hanno saputo infondere in questi una luce caratteristica e particolare, tale da renderli meravigliosamente vividi agli occhi del pubblico (come testimonia il lungo applauso che li ha accolti a fine rappresentazione sul boccascena del Verdi). Davvero coinvolgente anche la performance del soprano Giulia Della Peruta, non solo per quanto riguarda la componente vocale ma anche per quella attoriale: la sua Elvira è assolutamente spassosa, anche grazie all’impronta marcatamente fisica che la Della Peruta conferisce alla propria recitazione.
Venendo al quartetto protagonista, la prima menzione spetta sicuramente al baritono Nicola Ziccardi, cui è affidato il comico ruolo di Taddeo. Efficace nell’aria Ho un gran peso sulla testa, irresistibile nel duetto Ai capricci della sorte, Ziccardi si rivela eccellente anche nelle complesse scene d’assieme, divenendo un sicuro appoggio per i propri colleghi. Altrettanto valido il tenore Diego Godoy: il suo Lindoro si impone senza il minimo sforzo anche nelle scene d’assieme, ma la sua squisita vocalità si libra letteralmente sotto la volta affrescata del Verdi nelle due grandi (e impervie) cavatine che Rossini gli affida nel primo e nel secondo atto.
Il basso Alessandro Abis ha regalato al pubblico un Mustafà eccezionale, un perfetto ritratto del Bey rossiniano, interpretato con piglio istrionico e altero, quasi incurante dell’elevata difficoltà della parte – scritta dal pesarese con la stessa mano con cui avrebbe disegnato i complicati arabeschi della veste di un dignitario turco. Tanto a suo agio nel mostrare alterigia quanto nei risvolti più compiutamente farseschi dell’opera, Abis ha sapito fronteggiare un ruolo tutt’altro che semplice in modo esemplare: bisognava saper sfruttare lo stereotipo dell’epoca senza tuttavia soggiacere ad esso e la massiccia difficoltà musicale che gravava sulle sue spalle doveva essere sostenuta senza darne cenno al pubblico.
Per ultima ma non da ultima, l’effettiva italiana in Algeri, ovvero Isabella, qui interpretata dal mezzosoprano Antonella Colaianni. In questo uragano vorticoso di personaggi, maschere e simboli è lei il carattere centrale, è lei l’Angelica ariostesca che muove i fili della vicenda e la Colaianni doveva saperlo benissimo dato che fin dal primo momento si è imposta – davanti al pubblico e ai colleghi – come elemento nevralgico della situazione. Ha dimostrato una versatilità nell’ars canora davvero ragguardevole, ottenendo un mirabile equilibrio tra componente tecnica e interpretativa, sapientemente miscelato con una recitazione straordinaria, anche nei dettagli (anche il più piccolo: «Ehi! Caffè…»).
In conclusione, questa chiusura di stagione è stata sopra ogni aspettativa… ma al contempo coerente con quanto il Teatro Verdi ha promesso e offerto dallo scorso settembre con il concerto per i 150 anni del teatro. In altre parole ormai la nuova direzione intrapresa dal Verdi è ben definita e tracciata e i risultati non si sono fatti attendere: la popolarità e il rilievo, nazionale e internazionale, del teatro sono sensibilmente aumentati e una prestigiosa produzione come questa Italiana in Algeri costituisce sicuramente un ottimo biglietto da visita per gli spettatori delle prossime stagioni.
Photocredit: Imaginarium Creative Studio
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