…Sopra la superficie del fiume che trascorre
si specchiano le immagini increspate
della città immobilmente inquieta, che sempre
tremano, e non svaniscono mai;
andate…, voi che siete mutati ed ugualmente
la troverete proprio com’è ora…
P. B. Shelley, La sera: Ponte al mare, Pisa 1820
Non sarebbe molto felice Byron, se oggi potesse vedere la piccola strada che Pisa gli ha dedicato, dopo che tanto ha fatto, forse involontariamente, per farla diventare per tutto l’800 meta imprescindibile di un turismo romantico che ricercava lungo le sue strade e nei suoi tramonti tracce del grande poeta romantico, che citava i versi delle sue poesie guardando languidamente il lento scorrere delle acque dell’Arno, in cui nuotava sfidando correnti e malanni, preso da quel fervore di vita che lo divorava e avrebbe determinato tutte le sue azioni. Lui così raffinato, così dandy, come potrebbe amare questa strada così lontana dal bel Lungarno dove aveva abitato? Lontana soprattutto dall’acqua, continua fonte di gioia per lui che solo nuotando ritrovava la sua perfezione fisica, danneggiata da una zoppìa che tentava di nascondere. Lui che sosteneva di essere più orgoglioso delle sue imprese natatorie che dei suoi scritti, vantandosene in ogni occasione mondana, con i bellissimi abiti e i riccioli che metteva in piega tutte le sere. No, non si troverebbe bene in questa viuzza, oltretutto italianizzata in via Giorgio Byron. Sola consolazione forse gli sarebbe l’incrociarsi della sua via con quella dedicata a Percy B. Shelley, amico fraterno e sodale, compagno di lettere e di avventure, e sorta di dirimpettaio durante il suo soggiorno a Pisa.
Byron infatti risiedeva a Palazzo Lanfranchi (poi Toscanelli) sul Lungarno Mediceo, mentre Shelley, con la moglie Mary Wollstonecraft Godwin, autrice di Frankenstein, aveva preso alloggio all’ultimo piano dei Tre Palazzi di Chiesa sul Lungarno Galilei, in una tale concentrazione di genialità romantica da turbare gli animi più sensibili e rendere ancor oggi Pisa luogo principe delle memorie dei due grandi poeti.
Lord Byron era giunto a Pisa nel novembre del 1821, chiamato da Shelley che già vi abitata dal 1820. Shelley amò molto Pisa, vi creò un circolo culturale denominato Il Circolo Pisano, vi scrisse il celebre poema Adonais in morte dell’altro grande poeta inglese Johan Keats e credette di avervi trovato finalmente un luogo dove trovar pace. Arredò la sua casa con amore e dispendio economico, e scrisse all’amico John Gisborne “Abbiamo arredato una casa a Pisa e ho intenzione di trasformarla nel nostro quartier generale. Porterò qui tutti i miei libri e mi ci sistemerò come un ragno sulla sua tela”, ma purtroppo non fu così. Shelley e la moglie vi rimasero solo fino all’aprile del 1822, quando si trasferirono a San Terenzo, vicino a Lerici, forse proprio per dissidi con Byron.
La solitaria casa di San Terenzo fu dimora di Shelley per soli tre mesi, fino al giorno in cui trovò la morte durante una tempesta in mare, sulla sua piccola barca dall’infausto nome di Ariel, di ritorno da Livorno insieme al capitano Williams e al mozzo Charles Vivian. Il suo corpo fu recuperato sulle spiagge allora deserte di Viareggio, e qui arso il 16 agosto dinanzi a Lord Byron, al poeta Leigh Hunt e al Capitano Trelawny. Su quella spiaggia nacque il mito delle sue opere, della sua breve vita e della sua morte, così incredibilmente romantica quasi che fosse stata studiata a tavolino, e del suo cuore uscito intonso dal rogo.
Ma nel 1821 tutto questo dolore è ancora lontano. Byron arriva a Pisa con gran seguito, accompagnato, come racconta Thomas Medwin nelle sue memorie, da sette domestici, cinque carrozze, nove cavalli, un bulldog, una scimmia, alcune galline e tre pavoni (ma pare che invece fossero oche!) Byron si innamora immediatamente del palazzo dove alloggia, e ne parla in termini entusiastici narrando che è abitato da fantasmi, affascinato dall’idea che gli antenati dei Lanfranchi fossero stati i persecutori del Conte Ugolino. Inoltre poco lontano dalla sua abitazione si era sistemata la sua amante, Teresa Gamba Guiccioli, che viveva con il fratello di simpatie carbonare.
Byron si sveglia tardi, perché ama lavorare di notte (sembra che scrivesse fra la mezzanotte e le tre del mattino e che alimentasse la sua vena poetica con forti liquori), si alza verso le 11 del mattino e consuma una piccola colazione, sempre di magro perché sostiene che la carne rende feroci. In realtà sembra che la sua vera ossessione fosse invece quella di ingrassare, ne era terrorizzato, e così si nutriva pochissimo e si esercitava ossessivamente nel nuoto per restare in forma perfetta. Nel pomeriggio cavalca nelle campagne attorno alla città, a volte fino al mare, spesso in compagnia degli altri residenti inglesi e di Shelley, e a sera si reca a casa Gamba. Sono mesi di tranquillità e lavoro, turbati solo dall’incidente verificatosi il 21 marzo del 1822 con il Sergente Masi della milizia locale: una rissa per motivi di cavalleria degenera rapidamente in un grosso scontro fra i servi di Byron e la milizia, Masi finisce accoltellato e sopravvive per miracolo.
Forse fu questo il motivo all’origine dell’abbandono della città, ma più probabilmente fu la morte di Shelley, unita alla sua smania bramosa di una vita più eroica e romantica, che condusse Byron lontano, dapprima a Genova, sempre seguito da Teresa Gamba Guiccioli, e da lì in Grecia, in soccorso di un popolo che cercava l’indipendenza. Byron era assetato di libertà, la sua e quella dei popoli, e così parte carico di ideali su un vascello inglese, l’Ercole, da lui stesso armato e rifornito. In Grecia però la situazione è caotica, e da Cefalonia, dove è sbarcato, viene chiamato a gran voce in soccorso dal governatore di Missolungi, al centro di una zona allora malsana, situata fra due lagune e la foce di un fiume. Qua la sua storia si conclude tristemente, vi morirà infatti il 19 aprile del 1824, ma non in battaglia, bensì di febbre cerebrale.
La sua morte fu pianta in tutta Europa.
Non torturarmi più, memoria mia, tutto il presente è divenuto oscuro; finite ormai le mie speranze d’una beatitudine futura, vela il passato per misericordia!
G. Byron, Epitaffio
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