PISA – Dieci minuti di applausi hanno salutato The Beggar’s Opera di John Gay e Christoph Pepusch, il titolo che ha inaugurato la stagione lirica 2018/2019 del Teatro Verdi di Pisa. Un’apertura sicuramente non convenzionale con la ballad opera del 1727, presentata in una nuova versione a cura di Ian Burton e Robert Carsen, con l’ideazione musicale di William Christie.
Quest’anno il Teatro Verdi ha deciso lasciare il frac nella naftalina e di mettere da parte le smancerie alzando il sipario su una commedia caustica e feroce, dove si parla – finalmente senza filtri o escamotages – della contemporaneità. Nella loro versione della Beggar’s Opera, difatti, Burton e Carsen hanno eliminato i riferimenti politici del 1727 sostituendoli con altrettanti riferimenti attuali (ad esempio alla Brexit e a Theresa May), il tutto racchiuso in uno spettacolo di alta perfezione scenica e musicale. L’orchestra è quella formidabile de Les Arts Florissants, di cui il sopracitato Christie è fondatore e leader, che non si limita ad eseguire la partitura ricostruita per l’occasione, ma la rinnovano ad ogni rappresentazione grazie alle proprie doti di improvvisazione, dalle percussioni che si adeguano camaleonticamente a ogni scena (arrivando persino a includere delle catene nella scena del carcere) agli archi che eseguono dei glissandi per imitare Peachum e Lockit mentre sniffano una striscia di coca.
Il prestigioso allestimento, frutto di una ciclopica coproduzione internazionale, ha debuttato con successo il 20 aprile al Théatre des Bouffes du Nord ed è subito partito per una lunga tournée che, fino al 2019, porterà lo spettacolo in Francia, Regno Unito, Lussemburgo, Svizzera, Grecia e – naturalmente – Italia. Nel nostro Paese sono già avvenute due rappresentazioni al Festival di Spoleto; oltre alle rappresentazioni pisane ne sono previste solo altre due al Teatro Coccia di Novara.
È molto difficile poter parlare dei singoli artisti in casi come questo, poiché – senza nulla togliere al merito di ciascuno – è l’insieme ad essere davvero straordinario. La grande muraglia di scatole di cartone che domina la scena ma che viene costantemente smontata (sempre in modi diversi) e pazientemente riassemblata, le continue entrate e uscite anche dalla sala del Teatro, il dover portare e togliere materiale e oggetti in scena, tutto questo impone un grandissimo sforzo al cast artistico e al cast tecnico: ogni cosa deve funzionare in modo ineccepibile, come il meccanismo di un orologio, dove persino il proverbiale granello di sabbia avrebbe esiti disastrosi. In questo bisogna rivolgere un sincero applauso allo scenografo James Brandily. L’eccellente regia – mirabilmente supportato dalle luci di Peter van Praet – di Robert Carsen è sicuramente d’aiuto in questo, la sua mano invisibile è riuscita a organizzare un lavoro d’equipe volto a rendere i continui mutamenti sulla scena il più agevoli possibile, senza contare la maestria con cui ha saputo esaltare la grande profondità drammaturgica del testo di Gay ma senza per questo appesantirlo (è il caso dell’idea della barricata di cartoni, solo apparentemente semplice e poco influente sulla drammaturgia).
Ognuno dei sedici membri del cast meriterebbe un ampio spazio all’interno della recensione, cosa naturalmente impossibile per ragioni di brevità. Ciascuno ha saputo caratterizzare impeccabilmente il personaggio affidatogli, mettendone a nudo spregiudicatezze e ipocrisie, riuscendo a coniugare con maestria recitazione, canto e le affascinanti coreografie di Rebecca Howell. Nelle scene corali e d’assieme si sono (e non poteva essere che così) i due gruppi di banditi e prostitute, composti da Gavin Wilkinson (Matt), Wayne Fitzsimmons (Robin), Dominic Owen (Harry), Taite-Elliot Drew (Jack/Guardia della prigione), Natasha Leaver (Molly), Emily Dunn (Betty), Louise Dalton (Suky) e Jocelyn Prah (Dolly), per la divertita, coinvolgente interpretazione di questi personaggi ai margini della società. Nel gruppo dei banditi si è particolarmente distinto il bravo Sean Lopeman, interprete del doppio ruolo di Filch e dell’eccentrico barman Manuel: dotato di buona presenza scenica, ha rappresentato una formidabile spalla comica per l’intero cast, capace di attirare su di sé l’attenzione del pubblico.
Eccellente interpretazione della leader del gruppo delle prostitute Jenny Diver da parte di Lynsdey Gardiner. Assolutamente a suo agio in questo ruolo misterioso, sardonico e sarcastico, la sua Jenny è uno dei caratteri più riusciti e apprezzati dell’intero cast, con il suo essere perennemente in bilico tra il parteggiare per il bel Macheath e il consegnarlo alla giustizia per intascare una parte del guadagno, simulando poi un’aria di perfetta innocenza. Altrettanto ben riusciti, tanto per caratterizzazione quanto per risultato scenico, Polly Peachum e Lucy Lockit, rispettivamente interpretate da Kate Batter e Olivia Brereton. Personaggi differenti e che occupano un differente rilievo nell’economia della Beggar’s Opera, ma che la Batter e la Brereton hanno saputo incastrare in un perfetto gioco di tarsie rendendo inequivocabile che si tratta di due facce della medesima medaglia. Gustosa anche l’interpretazione del direttore della prigione Lockit, qui impersonato dall’ottimo Kraig Thornber, ben noto per la sua interpretazione di Riff Raff nel celebre musical The Rocky Horror Show che ha ricevuto universale approvazione da parte di pubblico e critica.
Dominatore della scena, grazie al suo grande carisma, Robert Burt che qui veste i panni di Peachum, l’astuto imbroglione che non esita a fare il doppio gioco ora muovendosi assieme alla banda di Macheath ora denunciando gli stessi banditi al corrotto Lockit per poi spartire con questo il ricavato della taglia. Burt ha saputo interpretare il viscido impeacher con disgustosa nobiltà, gonfiando la sua arroganza, ammantandolo di spassosa spregiudicatezza, accattivandosi fin dalla prima scena la simpatia del pubblico.
È il giovane Benjamin Purkiss a impersonare l’amato furfante Macheath. È forse il ruolo più complicato da gestire, principalmente a causa della sua costante presenza in scena e per il numero di arie e di songs a lui assegnate (di certo il più consistente in termini di brani solistici). Il suo Macheath è un impenitente donnaiolo col volto del ragazzo perbene, mai crudele nelle sue scelte, insomma un personaggio confezionato ad arte per entrare immediatamente nelle grazie degli spettatori, pronti a guardare con benevolenza alle sue malefatte esattamente come il pubblico di 291 anni fa, quel pubblico cui John Gay rinfacciava ipocrisia e falso perbenismo. La performance di Purkiss, asciutta, col canto ben curato quando doveva esserlo e approssimativo quando doveva esserlo, ha dimostrato che in fin dei conti in platea nulla è cambiato.
Strepitosa e assolutamente esilarante la Mrs. Peachum di Beverley Klein. Cantante e attrice con una solida carriera nel campo dei musical e dell’operetta, di cui la Beggar’s Opera è l’antesignano, vanta un corposo repertorio in cui spiccano Candide, Sweeney Todd, Les Misérables e L’opera da tre soldi; la signora Klein rappresenta la concretizzazione dello spirito della ballad opera voluto da Robert Carsen e Ian Burton. Nessuno meglio di lei avrebbe saputo portare sulla scena la dispotica Mrs. Peachum, sfoderando per lei un’irresistibile vis comica unita a un canto meravigliosamente stonato, alternando un registro strozzato, fin troppo affettato, a uno grave, gutturale e cavernoso, quasi a somigliare a una parodia del baritono. In tutte queste buffe metamorfosi, tuttavia, non è riuscita a celare la propria preparazione e soprattutto la sua grande vocalità.
Nonostante quel che si poteva temere – la novità di inaugurare la stagione non con un titolo nazional-popolare e soprattutto non con un’opera lirica, l’intera rappresentazione in lingua inglese, il libretto polemico e decisamente salace – The Beggar’s Opera si è rivelato un grande successo, senza ombre o dubbi. A onor del vero, una tale entusiastica reazione da parte del pubblico non si vedeva da alcuni anni al Teatro Verdi. Il Teatro ha osato, ha proposto uno spettacolo nuovo, sotto molti punti di vista, e ha vinto la scommessa. Quello di sabato 20 ottobre si è dimostrato un pubblico intelligente, aperto alle nuove proposte e alle provocazioni che – a quanto pare – quando sono mosse da ingegno e alta levatura artistica possono anche rivelarsi un autentico successo.
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