Daniele Agiman racconta il suo dittico Leoncavallo/Poulenc

Venerdì 1 e domenica 3 marzo, rispettivamente alle 20:30 e alle 15:30, si concluderà la stagione lirica del Teatro Verdi di Pisa con un raffinato Dittico del Novecento, composto da due opere estremamente diverse tra loro: l’Edipo Re di Ruggero Leoncavallo e La voix humaine di Fransic Poulenc. I due titoli saranno diretti dal M° Daniele Agiman (già direttore del Trittico Hindemith/Puccini nel 2017 e dell’Iris di Pietro Mascagni della scorsa stagione). Il Maestro è un autentico specialista del teatro d’opera del Novecento, in particolare per quanto concerne il repertorio verista italiano, e ha accolto con entusiasmo la proposta di un’intervista su questa curiosa avventura teatrale, una cortesia di cui sono profondamente grato. In teatro è appena terminata la presentazione del dittico, ci accomodiamo nella sala grande – totalmente deserta – e accendo il registratore mentre sul palco i macchinisti stanno montando le scene.

L’unione di Edipo Re e de La voix humaine forma un dittico davvero insolito, i cui elementi sono molto distanti per stile e concezione drammaturgica, oltre che per epoca di composizione. Cosa comporta accostare due titoli tanto eterogenei tra loro?
«La premessa è che trovo che eseguire, ad esempio, in una solita serata Cavalleria Pagliacci – come è d’uso e come anch’io ho fatto un miliardo di volte –  sia un accostamento particolarmente e cattivo e violento nei confronti del pubblico. Mi spiego meglio: ritengo che accostare due opere così “nere”, violente e tanto intense sia un errore, perché significa condurre lo spettatore per ben due volte alla climax in modo rapido. È pesante, quasi forzato. Invece, quando mi è stato proposto questo dittico ho trovato l’idea molto interessante perché è vero che si tratta di titoli eterogenei, ma anche con tantissimi punti in comune: innanzitutto sono due opere molto veloci e sulla scena di entrambe non accade quasi mai nulla: ad esempio, nell’Edipo abbiamo un personaggio che resta in mezzo alla scena e attorno a lui ruotano il coro e gli altri personaggi, invece nella Voix abbiamo addirittura solamente una poveretta che parla al telefono con una persona che non sentiremo mai interloquire con la protagonista. Sono anche due opere che parlano di solitudini, se vogliamo, in cui i protagonisti devono scoprire qualcosa sulla loro condizione umana attraverso il contatto con altre persone. Il linguaggio musicale è molto diverso, senz’altro, ma è proprio questo che rende affascinante il binomio: spesso nell’accomunare due opere del verismo come Cavalleria Pagliacci abbiamo il rischio che spinta emotiva verso il pubblico cali drasticamente. Qui invece abbiamo due percorsi musicali e psicologici molto diversi, pertanto un rischio di annullamento l’una con l’altra non esiste».

Qui e sotto: il M° Daniele Agiman durante le prove del dittico. Photocredit: Imaginarium Creative Studio.


Che tipo di reazione si aspetta da parte del pubblico?
«Sicuramente non di noia. Parlando della Voix humaine, in cui abbiamo Anna Caterina Antonacci, credo avremo una sorta di delirio finale perché in questo ruolo è incredibile: sa costruire il percorso di questa follia organizzata in un modo straordinario, per non parlare della lettura dello spettacolo di Emma Dante. Sono convinto che anche Edipo Re avrà una bellissima risposta, anche perché il pubblico di Pisa si è dimostrato spesso aperto alle novità: anni fa diressi qui la Sancta Susanna di Hindemith – che definire «dura» è dir poco! – e devo dire che la risposta degli spettatori è stata davvero molto buona. Ho fiducia in un pubblico che si è già dimostrato tanto curioso».

Edipo Re è una partitura complessa: a causa della morte di Leoncavallo è passata di mano in mano nel tentativo di completare gli abbozzi del compositore per dare all’opera un finale e per colmare le lacune lasciate. Come ci si accosta a un titolo del genere?
«Questa è la grande domanda! Quello che si vedrà a Pisa è il mio tentativo di recuperare tutto il materiale possibile relativo al primo elemento del nostro dittico; faremo riferimento all’edizione Suvini Zerboni (l’unica attualmente in commercio) e purtroppo ci sarà un taglio non da me voluto (esiste una discrepanza: il materiale dell’orchestra non corrisponde in toto a quello che è scritto in partitura). Al di là di questo, il lavoro svolto in questi lunghi mesi – in realtà la partitura dell’Edipo mi perseguita da anni – è stato raccogliere tutti gli spartiti di riferimento, capire cosa poteva essere una collazione di tutto il materiale disponibile, in modo da fornire un’esecuzione il più possibile completa. Ritengo che il lavoro sia abbastanza completo e, tra l’altro, comprende anche due pagine provenienti dal materiale Suvini Zerboni che non compaiono in nessuna delle registrazioni ad oggi disponibili, credo quindi che sia un’operazione interessante anche sotto il profilo musicologico. Peraltro, queste due pagine che andiamo a reinserire contengono un’aria per baritono, quindi una delle arie scritte per Titta Ruffo».

La costruzione del dittico è interessante anche perché i due titoli affrontano in modo diametralmente opposto la questione drammaturgica: l’Edipo  è a tutti gli effetti un dramma in musica ordinario ma compresso in cinquanta minuti, La voix è invece un monologo che non ci racconta – in senso tradizionale – una storia, piuttosto uno squarcio sulla vita della protagonista. Cosa è richiesto al direttore nell’affrontare due concezioni del teatro tanto diverse?
«In effetti raramente ho incontrato difficoltà tanto eterogenee da affrontare sia in buca sia in palcoscenico: quando si ha a che fare con un’opera o con un dittico o un trittico tradizionale (Cavalleria Pagliacci oppure il Trittico pucciniano) i linguaggi musicali e i fatti che avvengono in scena sono grossomodo sovrapponibili. Qui, invece, siamo di fronte a due linguaggi teatrali totalmente diversi: in Edipo Re ci troviamo di fronte alle difficoltà di una tipica opera verista, sebbene abbia un libretto particolare e una certa stringatezza di tempi, mentre ne La voix humaine il vero, enorme problema è il fatto che i tempi scritti da Poulenc in partitura – derivati dal testo di Jean Cocteau – sono dati dai silenzi dovuti alla risposta dell’interlocutore. Su questo aspetto gioca un ruolo fondamentale l’orchestra: a volta l’orchestra è l’interlocutore che parla, a volte accompagna il canto declamato della protagonista, ma molto spesso si incontrano delle corone in cui l’orchestra tace disseminate per tutta la partitura che prevedono il parlare della persona dall’altro capo del telefono; se non c’è un’intesa, un’alchimia tra il direttore, la reazione dell’orchestra e quel che la protagonista si aspetta (perché sta a lei, sulla scena, visualizzare il tutto), allora viene a mancare quel ritmo teatrale che è così difficile da costruire perché ogni volta può essere reinventato. Nelle note iniziali Poulenc stesso dice: “Spetta all’interprete stabilire le lunghezze effettive delle pause, assai importanti in questa partitura. Il direttore d’orchestra dovrà prendere le sue decisioni in merito, anticipatamente, assieme alla cantante”. Una complessità enorme! Non è difficile da dirigere, è difficile riuscire a realizzare questa frammentazione continua prevista dalla partitura di Poulenc. Inoltre la lettura di Emma Dante cambia totalmente le carte in tavola, quindi bisogna ripensare la partitura anche in base a questo».

L’Edipo Re è uno dei grandi classici e dei maggiori capolavori del teatro greco, sulla sua immortalità e validità non c’è neanche da discutere. Ma La voix humaine, opera del 1958 e rappresentata per la prima volta esattamente sessant’anni fa, ha ancora una sua validità?
«Credo proprio di sì. Ritengo sia fondamentale la contestualizzazione: per un ragazzo di 20-25 anni forse è quasi ridicolo vedere una donna che parla con un telefono a fili per mezzo di una centralinista che mette gli operatori in collegamento, con abbonati che intervengono nel corso della sua telefonata… credo siano cose che uno oggi neanche si immagina. Ricordo ancora molto bene il duplex, quell’apparecchio che veniva condiviso tra le famiglie, quindi è uno scenario che conosco bene. È chiaro che bisogna fare uno sforzo per staccarsi dallo specifico del mezzo, che è ovviamente datato; quel che resta – ed è l’aspetto centrale – è il rapporto con la tecnologia. È proprio in quegli anni che Walter Benjamin affronta il tema del rapporto col telefono come mezzo di comunicazione: stiamo parlando di un’epoca, il 1930 cioè quando Cocteau scrisse il suo testo, in cui la tecnologia iniziava ad essere pervasiva rispetto alla vita delle persone. La protagonista della Voix viene lasciata attraverso un mezzo, il telefono, che non prevede di fronte a te la fisicità della persona, quindi ritengo che il motivo per cui ancora oggi questo titolo ci commuove ed entriamo in empatia con la protagonista, nonostante il “ridicolo” di questo telefono, è la solitudine del mezzo tecnologico, un abbandono che viene vissuto e subito senza il contatto con la persona, che viene impedito dal mezzo stesso: non abbiamo una parola che rimanda a uno sguardo, ma una parola che rimanda a un’altra parola. Qua si stanno toccando temi enormi. Uno dei testi che mi ha cambiato la vita è Cultura orale e civiltà della scrittura: ai tempi di Platone è stata affrontata la stessa problematica nel momento in cui la scrittura ha trasformato la trasmissione del sapere che non avveniva più tramite il legame allievo-maestro, quindi un contatto fisico di consuetudine e di artigianalità condivisa, ma attraverso uno scritto che asciugava le tue idee. Il telefono e, oggi, i cellulari hanno spinto all’eccesso quello che era un contatto interpersonale e che invece ora avviene attraverso un mezzo che non permette l’interlocuzione anche fisica. Quindi, trovandosi di fronte a un abbandono, la protagonista ci avvisa del grande pericolo che si annida nell’utilizzo della tecnologia come unico mezzo di comunicazione e di relazione interpersonale; infatti adesso i ventenni si abbandonano anche con un SMS, un’azione di una crudeltà incredibile ma che è data dalla crudeltà del mezzo».

Photocredit: Imaginarium Creative Studio.


Esiste un altro fil rouge tra i due elementi del dittico: si tratta di due opere che trattano della degenerazione dei rapporti umani.
«Esattamente, questo tema è inquadrato attraverso il vissuto psichico e si tratta di drammi totalmente interiori. Abbiamo anche, mi scuso per il gioco di parole, un ulteriore dittico all’interno di questo, perché le due opere ci mostrano due mondi psicologici assolutamente differenti ma che conducono allo stesso risultato, eliminando naturalmente le contingenze della trama».

Quando si pensa all’opera, di solito si pensa a una rappresentazione piuttosto lunga e articolata; in questo caso ci troviamo di fronte a due atti unici che non superano i 50 minuti. Come vede il futuro dell’opera? Improntato più alla struttura classica o verso l’atto unico?
«Ora come ora, non riesco a pensare a un futuro per l’opera. Oggi un compositore che scrive un’opera deve reinventare tutto: che sia un atto unico, che sia un’opera lunga, stiamo parlando di un linguaggio desueto che va ripensato ogni volta. Ho diretto anche opere contemporanee di diversi compositori, a cominciare da Marco Tutino, e ogni volta i compositori si trovano a ripensare la storia dell’opera, del melodramma, dovendo trovare la propria personale soluzione. C’è invece una cosa su cui si riflette troppo poco: l’opera in un atto è una scoperta tutta italiana, partita da Mascagni (anche se Ponchielli aveva già scritto qualcosa anni prima) con Cavalleria, e ha segnato un’epoca della storia della musica. Si tratta di una novità in quanto a tipologia di narrazione e non è un caso che siano i compositori postverdani ad adottare questa forma, che poi è la forma in cui è stata scritta buona parte dei capolavori del Novecento: SalomeElektra, il Trittico pucciniano, Cavalleria, ecc. L’atto unico ha senz’altro alcuni vantaggi: grande stringatezza, brevità, facilità di allestimento, insomma andava in una direzione che il pubblico apprezzava, ossia un teatro asciutto, veloce e sintetico rispetto, ad esempio, alla tradizione del grand opéra francese. C’erano appunto questi aspetti interessanti e il fenomeno dovrebbe essere meglio studiato dalla musicologia». 

Photocredit: Imaginarium Creative Studio.

lfmusica@yahoo.com

Luca Fialdini
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