Intervista con Luca Dal Canto, regista, videomaker e fotografo
Per voi, tramite la rubrica “Cinema & Toscana”, abbiamo avuto il piacere di intervistare il regista livornese Luca Dal Canto, conosciuto presso la sala Artè di Capannori (LU), in occasione del seminario “Scrivere per il cinema” organizzato dal Centro Studi Commedia all’Italiana.
Tra le varie attività Dal Canto vanta collaborazioni in ambito cinematografico e pubblicitario con importanti registi italiani e svolge attività di docenza presso il corso di cinema della Scuola Vertigo a Livorno. I suoi corti Due giorni d’estate (2014) e Cappotto di lana (2012) sono entrati nelle selezioni ufficiali di numerosi Festival cinematografici internazionali quali, per Due giorni d’estate, il 67° Festival de Cannes (sezione Short Film Corner) e il 30° Marché du Festival de Clermont Ferrand.
Ciao, benvenuto su TuttoMondo. Parlaci un po’ di te, del tuo percorso, dei tuoi lavori. Qual’è e da dove nasce la tua idea di cinema, quali sono le tue preferenze e quali ritieni siano gli orizzonti che si aprono al cinema d’oggi.
Sono un testardo inguaribile sognatore. A 16 anni, nel 1997, capitando per caso sul set di Ovosodo di Paolo Virzì, dissi: “da grande voglio fare questo”, cioè uno dei mestieri più difficili ma emozionanti al mondo. E da quel momento ho fatto di tutto per farlo. Dopo la laurea in Linguaggio Cinematografico al Dams, ho avuto la fortuna, trasferendomi a Roma, di cominciare a lavorare come aiuto regia nel cinema e nella pubblicità grazie al regista Enrico Oldoini e al suo aiuto Federico Marsicano. E così mi sono fatto le ossa e ho imparato molte cose sui set di Daniele Luchetti, Sergio Rubini, Paolo Costella, Gianni Costantino, Genovese&Miniero, Luca Lucini e molti altri. Da lì ho iniziato a scrivere i primi corti e poi a fare i primi progetti personali, videoclip, spot, documentari. Il Cinema è un settore molto complicato e sta vivendo, soprattutto in Italia, un periodo di enormi difficoltà. Ci sono pochi produttori e soprattutto c’è poco coraggio nell’investire su giovani e generi nuovi… E’ una giungla in cui la delusione è dietro l’angolo. Ci vuole tanta passione e soprattutto tanta professionalità, in particolare da quando l’avvento delle nuove tecnologie ha fatto credere a chiunque di poter fare il “regista”.
Che cosa ti ispira? In una precedente intervista hai dichiarato che l’idea per “Cappotto di lana” ti è venuta in spiaggia sentendo parlare i genitori di una sedicenne intenzionati a istradarla al mondo del lavoro. Chiudi gli occhi, hai cinquant’anni. Cosa diresti a un figlio che vuole iscriversi al liceo classico o, “peggio”, a una facoltà umanistica?
Mi ispira la vita di tutti i giorni. Quando passeggio, viaggio, lavoro, osservo tutto ciò che mi sta intorno. Accanto a noi, ci sono spunti incredibili per storie meravigliose, paradossali ma incredibilmente reali. Sono diventato padre due mesi fa, quindi la tua domanda cade proprio a puntino. Se Elena fra 20 anni mi chiedesse di andare a una facoltà umanistica? Beh, ci rimarrei male se non lo facesse e, anche se so tutte le problematiche che ci sono, farò di tutto per farla innamorare della Cultura. Senza obbligarla, ovviamente, ma secondo me la famiglia è tutto nella crescita di una bambino e quindi spero proprio che prenda da suo padre o sua madre.
Mi viene in mente il padre di Dedo: “oh ma lo sai che questo Caproni è proprio ganzo”. Caproni, Modigliani, come vive quest’eredità il livornese medio?
Male… Anzi, il livornese medio non la vive proprio, purtroppo. Livorno è stata una delle città europee più importanti tra il XVIII e il XIX secolo e ha dato in natali a decine di personaggi, artisti e letterati che hanno dato tanto alla Cultura, ma oggi è una città priva di ogni senso di realtà e soprattutto priva di memoria storica. Ci sono ovviamente delle eccezioni, ma la situazione è veramente complicata. Io la amo, ma mi accorgo sempre di più dei limiti dei suoi abitanti.
Sicuramente la tua città è un luogo stimolante, credi che grazie a internet sia in parte superata l’idea che non si possa prescindere dai grandi centri culturali come unico luogo dove tessere quella rete di scambi e contatti fondamentale per fare cinema?
No… Internet aiuta e sicuramente ha ridotto le distanze e permesso una maggiore facilità di tessere rapporti lavorativi, ma per il Cinema Roma è Roma. Certo, uno può prendere come base la sua città, ma deve sapere che sarà obbligato a spostarsi.
Nella pratica qual’è la definizione che dai di “videomaker” rispetto all’idea che tutti noi abbiamo di “regista”. Pubblicità progresso, spot, videoclip, in Italia immagino che inizialmente si “campi” di queste cose. Tu di cosa “campi”? Hai ricevuto qualche sostegno alle spese per i tuoi primi lavori?
Il videomaker è una figura nata negli ultimi dieci anni, con l’avvento delle nuove tecnologie digitale e la conseguente semplificazione dei processi di ripresa e montaggio. Il videomaker è colui che è in grado di realizzare un prodotto audiovisivo, per motivi di basso budget o di scelta personale, da solo (o quasi) e quindi occuparsi di tutti gli aspetti legati ad esso: dalle riprese al montaggio, dalla fotografia ai costumi e molto altro. Io vivo di questo. Sono autore di spot pubblicitari, backstage per il cinema, videoclip musicali, cortometraggi e documentari, talvolta su commissione, talvolta con progetti personali che ricevono piccoli contributi pubblici o privati. Il cortometraggio Il cappotto di lana, ad esempio, ha ricevuto un piccolo sostegno da parte della Toscana Film Commission.
Hai già realizzato due cortometraggi che hanno fatto il giro di molti festival , ci hai detto che a Cannes hai venduto il tuo lavoro. Puoi dirci in breve come funziona la distribuzione dei corti all’estero e secondo te perché in Italia ciò non avviene? Eppure le serie TV hanno successo, per certi versi il singolo episodio di una serie non può avvicinarsi al cortometraggio?
In Italia il mercato del cortometraggio è quasi inesistente. Ci sono molti festival, ma non ci sono canali distributivi, come televisioni e distribuzione cinematografica. In Italia, a differenza dell’estero, il cortometraggio non è considerato un genere, il pubblico medio spesso non lo conosce neanche e quindi non interessa a nessuno. Fuori dal nostro Paese, invece, ci sono canali televisivi tematici e soprattutto fondi statali destinati alla produzione di film brevi e circuiti cinematografici che proiettano cortometraggi nelle sale prima dei film in programmazione. E questo accade pressoché ovunque, pensa che il mio film Due giorni d’estate (17 selezioni ufficiali, presentato fuori concorso al 67° Festival di Cannes), oltre a molti paesi europei, è stato venduto anche in Africa (Tanzania, Kenia e Malawi)! L’altro corto Il cappotto di lana ha avuto invece un grande successo nei festival, con ben 48 selezioni ufficiali e 16 premi. Solo in questo modo, tramite le kermesse nazionali e internazionali, ha avuto modo di avere tutta questa visibilità.
Tu vedi i corti come banco di prova o allenamento per farti le ossa e preparati a qualcosa di più grande oppure ti soddisfa maggiormente questo modo di esprimerti?
Forse se vivessi all’estero sceglierei di specializzarmi sul genere breve e fare il “regista di cortometraggio”, ma visto che abito in Italia sono della scuola di pensiero che il cortometraggio debba essere un banco di prova per far poi qualcosa di più grande e, infatti, nel cassetto ci sono già due lungometraggi.
Visionate il cortometraggio Il cappotto di lana
Leo D’Arrigo
- “Il cinema dipinto”, l’arte pittorica e cinematografica di Enzo Sciotti - 22 Settembre 2017
- L’anarchia antifascista di Giannini e Melato nel classico della Wertmüller - 21 Agosto 2017
- I Rhapsody con il loro tour d’addio alla Festa dell’Unicorno - 22 Luglio 2017