« Nessuna terra può essere ereditata da una donna, ma tutta la terra spetta ai figli maschi. »
Così recita un’antica legge salica, in vigore fin dal VI secolo su tutte le terre saliche e resistente nel Regno d’Italia fino ai tempi dello Statuto Albertino, che nel 1848 prevedeva ancora il diritto di discendenza al trono secondo tale principio.
Nessun diritto di discendenza alle donne di rango nobiliare, quindi. Le eccezioni sono pochissime e la raccontano lunga sull’incredibile modernismo di alcune famiglie dei secoli passati; i Del Carretto tra queste: la concessione di investitura sulla discendenza femminile in mancanza di eredi maschi, fu il coraggioso premio che l’imperatore sassone Federico II concesse ad Enrico II – Del Carretto – in virtù di una comprovata fedeltà.
Ilaria nacque nel 1379, figlia di Carlo del Carretto, ricco marchese di Savona e Signore di Finale, in una posizione di prestigio, a metà tra il profumo della riviera e l’aria tersa della montagna, nel bel mezzo di una nascente via commerciale ma, ancor prima, di un punto militarmente strategico che avrebbe trovato conferma nella crescente fortuna dello stato carrettesco.
Sembravano ormai lontani i tempi del bisnonno Enrico II, ma Ilaria trascorse gran parte della sua giovinezza ascoltando un’antica leggenda, tramandata dal trecento, sulle origini della sua famiglia e costruita intorno alla figura del giovane Aleramo. Orfano, dopo essere stato assoldato nell’esercito imperiale, questi era stato benvoluto dall’imperatore Ottone I e per questo assegnato alla figlia Alasia in qualità di governatore e maestro. Tra flebili resistenze e tenaci insistenze, nacque l’amore tra i due giovani, costretti a fuggire nelle terre natali di Aleramo per sfuggire alla prevedibile ira dell’imperatore.
Nonostante l’impeto del più incondizionato amore, però, un uomo d’armi non può accettare a lungo la costrizione di una vita lontano dai campi di battaglia: Aleramo tornò così nell’esercito, sotto falso nome e false vesti. L’imperatore, accortosi del sotterfugio, decise comunque di perdonare i due giovani, facendo dono ad Aleramo di tante terre quante sarebbe stato capace di percorrerne a cavallo senza fermarsi mai. Nacque così il Monferrato, raccontato dalle affollate fantasie cortesi del XIV secolo e resistito fino al fiorire dell’epoca rinascimentale e oltre.
Proprio in quelle terre accarezzate dal ricordo degli affetti familiari, Ilaria s’innamorò per la prima volta di un giovane cavaliere, credendo di poter dare nuova vita alla leggenda di Aleramo e Alasia, che tanto aveva amato. Ma i tempi erano giusti perché le illusioni di una giovane donna trovassero pace nella dimenticanza.
Ilaria fu fortemente voluta come sposa da Paolo Guinigi, signore di Lucca, che aveva da poco assistito alla morte della prima moglie, Maria Caterina degli Antelminelli, decenne e vergine, in seguito ad un’epidemia di peste.
Il 3 febbraio 1403, durante il giorno di San Biagio, Paolo Guinigi, all’età di 30 anni, sposava Ilaria del Carretto che di anni ne aveva 24, nella chiesa di San Romano, a Lucca.
Il cronista Giovanni Sercambi ci racconta con grande precisione il fasto e la ricchezza che si consumarono durante quei giorni: furono sospese perfino le leggi suntuarie in vigore.
Paolo Guinigi era un uomo ante-litteram, la sua dedizione alle arti e alla pace fu una piacevole anticipazione di quel mecenatismo mediceo che la storia avrebbe conosciuto in un futuro non troppo lontano. Fu un uomo straordinariamente protorinascimentale vissuto in un periodo storico affollato da personalità bellicose e belligeranti; la sua, duramente costruita, era […]una Signoria nata troppo presto all’arte e alla pace, in terra e tempi da lupi. (De Giovanni, 1988)
Il matrimonio tra Paolo Guinigi e Ilaria del Carretto non durò che il tempo di qualche anno trascorso tra i più preziosi regali e il più grande affetto; Ilaria diede alla luce il suo primogenito maschio, Ladislao, nel 1404 e morì dando alla luce la secondogenita, Ilaria minor.
Ilaria Del Carretto se ne andò l’8 dicembre del 1405, all’età di 26 anni, lasciando due figli e l’uomo che aveva saputo amare più di ogni altra cosa. Il suo ultimo respiro fu accompagnato dal canto del menestrello di corte, perché la musica era riuscita ad allietare i più bei momenti e non avrebbe mai dovuto smettere di risuonare nella memoria di chi l’avesse conosciuta.
Un matrimonio, quello tra Paolo Guinigi e Ilaria Del Carretto, breve nella durata. Ma il Signore di Lucca ne volle eternare il ricordo commissionando a Jacopo della Quercia, giovane e promettente artista nato nei pressi di Siena, l’esecuzione di quello che sarebbe diventato uno dei più bei monumenti funebri che la letteratura artistica abbia conosciuto.
Il monumento funebre ad Ilaria Del Carretto è tra le più alte sublimazioni dell’amore di un uomo per la sua donna; Paolo seppe restituire, per mano di Jacopo, la vita alla sua Ilaria, vestendola di un sonno verosimilmente leggero, restituendole quella terrena bellezza che i suoi contemporanei avevano potuto ammirare passeggiando per le vie del centro, e che in epoca più recente ha portato a diffondere la credenza popolare secondo cui Ilaria fosse una bellissima Madonna dormiente, piuttosto che una santa a cui rivolgersi per ottenere protezione e fertilità.
L’abito che veste Ilaria è una cioppa o pellanda di fattura oltremontana, perfettamente in linea con le manifestazioni artistiche che in quegli anni animavano il gotico internazionale, estremamente curata nel dettaglio dei piccoli e preziosi bottoni, del colletto alto, le maniche ampie e il taglio sotto i seni, il suo ventre è leggermente rigonfio per la volontà di suggerire la causa della morte; l’immagine di grande eleganza viene sublimata dalla raffinatezza dell’acconciatura percorsa da bande floreali e dalle scarpe a punta che interrompono il ritmo del cadere gotico della veste. Il look è quello di una donna estremamente facoltosa: Paolo Guinigi faceva mostra di quanto più prezioso avesse avuto, ostentandone la sobrietà.
Sulle fiancate laterali brevi è possibile notare lo stemma che rappresenta i blasoni uniti delle famiglie Guinigi – Del Carretto, confutando la polemica mossa negli anni ’30 del ‘900 quando, in assenza dei rivestimenti laterali, ritrovati solo successivamente, si voleva attribuire il monumento alla rappresentazione della prima moglie di Paolo Guinigi, Maria Caterina degli Antelminelli.
Significativo il cagnolino ai piedi della sua padrona, che rimane lì a guardarla, assolvendo anche alla funzione iconografica di rappresentazione della fedeltà coniugale – di quell’ honore quattrocentesco che Guinigi ribadisce nelle sue lettere – come in attesa di un’ultima carezza.
L’opera di Jacopo della Quercia non è che il “vissero felici e contenti” di una bella fiaba, il gran finale di una storia meravigliosa fatta di rispetto, honore, bellezza e grande affetto.
Ilaria incantò e continua ad incantare. Lo fece con i più grandi poeti che le dedicarono meravigliosi brani letterari: da D’Annunzio a Pier Paolo Pasolini, passando per Quasimodo. Ancora oggi incanta, suggerendo tutta la bellezza della sua storia ai turisti in visita alla sacrestia del Duomo di Lucca.
Il monumento funebre ad Ilaria del Carretto dà forma plastica alla morte, ritraendola non già come una degenerazione del tempo ma mostrandone il più vitale degli aspetti, eternizzando il ricordo di una vita umana in una dimensione inviolata, vergine che vive al di sopra delle nostre categorie percettive, sopra ogni materialità. Noi possiamo intuirne l’esistenza a partire dal freddo marmo.
Giulia Buscemi
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