Lucca Film Festival – Sabato 21 Marzo. Lezione di cinema di Jeremy Irons.
La mattina di Sabato 20 Marzo era attesa, al Teatro del Giglio, con grande trepidazione, la lezione di Jeremy Irons, con la partecipazione dei già citati Borrelli e Carabba, di Manrico Ferrucci (direttore del Teatro del Giglio) e di Domenico De Gaetano, responsabile di Volumina. Già due ore prima dell’inizio dell’evento, in Piazza del Giglio si è formata una coda di persone che, a poche decine di minuti dall’inizio è diventata sempre più corposa, tanto da arrivare a riempire il teatro cittadino. L’attesa per le parole di Jeremy Irons era molta e sicuramente posso dire che non ha deluso le aspettative di questo pubblico variegato ed interessato, anzi la sua parlantina fluviale, piena di aneddoti, ha sorpassato anche le domande dei giornalisti, creando così un vero e proprio flusso biografico di un grande artista contemporaneo.
Manrico Ferrucci: Io vorrei fare a Jeremy soltanto una domanda che forse ognuno di voi immaginerà. Che cosa rappresenta Puccini per lui? Perché secondo noi Puccini rappresenta qualcosa per chiunque, non solo per i musicisti o per i grandi esperti di musica ma per chiunque abbia un rapporto con l’arte e la creatività.
Jeremy Irons: In verità io incontrerò Puccini più tardi, visiterò la sua casa natale e fin’ora la mia vita si è intersecata con la sua da un punto di vista cinematografico con M.Butterfly, poi quando con Franco Zeffirelli abbiamo girato Callas Forever c’era moltissima Tosca in quel film, Turandot è una delle mie opere preferite e La bohème mi è veramente cara ed è entrata nel mio cuore. Tuttavia non ho ancora conosciuto Puccini come uomo, quindi sono molto contento di farlo questo pomeriggio. Ma perché l’arte ci tocca? Che cosa rappresenta l’arte per noi? Qual è questa magia che ci lasciano la musica, la pittura, la letteratura? Perché succede tutto questo? Chiaramente la cosa più semplice da dire è che è un dono di Dio e cosi via… Però in verità questi artisti, aprendo se stessi al pubblico, si aprono all’arte e ci portano a comunicare l’uno con l’altro. L’arte è prima di tutto comunicazione ed un grande artista è una persona che permette all’arte, alla musica e al pubblico di permeare la propria anima, perché in fondo tutti noi condividiamo quella che è la condizione umana. Passiamo moltissima della nostra vita avendo paura, avendo paura di quello che è diverso da noi, delle razze diverse, delle religioni diverse, delle credenze diverse; ecco, l’arte e l’artista, aprendosi, formano un ponte, un ponte per l’umanità e i grandi artisti come Shakespeare e Puccini sono immortali e ci hanno regalato questo.
Claudio Carabba: Nella lunga e bella carriera di Irons, Cronenberg è solo una tappa ma la carriera di Irons è molto più complessa. Parlando dei due film fatti con Cronenberg, il tema della mutazione, della metamorfosi dolorosa o dell’evoluzione che è abbastanza tipico del cinema di Cronenberg, è quasi tutto affidato al corpo di Jeremy, senza bisogno di grandi trucchi. Come sei entrato in questi personaggi?
Jeremy Irons: Mi piacerebbe arrogarmi il credito per tutti i ruoli che ho interpretato. Però non posso, io sono un attore. Io seguo una sceneggiatura, mi immergo in quella sceneggiatura ma questa è stata creata da un’altra mente. Quello che faccio, in verità, è molto simile a quello che fa un bambino: mi immagino le cose, gioco, mi immagino di essere una persona diversa, in un posto diverso, in un tempo diverso e poi cerco di diventare quella persona, cerco di vedere il mondo attraverso gli occhi di quella persona, di amare le stesse cose che amerebbe quella persona e di vivere come farebbe quella persona. Questa è la parte facile. Quello che invece è difficile è arrivare a quel punto di semplicità, e questo si può fare solo con un grandissimo lavoro interiore. La prima cosa che uno deve fare è respingere, mandare via, levare dal tavolo tutti i fattori che ti possono distrarre, tutti quei fan che ti dicono “ah ma tu sei fantastico”, tutte le persone che ti dicono che sei eccezionale, le telecamere, le macchine fotografiche, tutto questo uno lo deve rimuovere perché il bambino piccolo che è in te lo sa che forse non sei in grado di farlo, lo sa che hai bisogno di centrarti su te stesso, quindi devi abbandonare qualsiasi tipo di aspettativa ed evitare tutti questi fattori di distrazione. Poi entri dentro te stesso e cerchi questa semplicità che è alla radice di tutti noi; è una tecnica che deve essere appresa e questo non è fare l’attore. In verità io odio recitare. Per me recitare è un po’ come le mutande portate dalle signore sotto una gonna molto stretta: è bello sapere che le sta portando ma è carino anche non vedere la sagoma della mutanda. Quando io recito, la mia più grande speranza è quella di portare un qualcosa di più a quello che è già stato scritto, magari di sorprendere il regista ma soprattutto di aprirmi in maniera tale da poter comunicare con il pubblico, non necessariamente con tutti, ma stabilire un ponte con alcuni di voi.
Parliamo un attimo ora di Inseparabili: come sapete in Inseparabili io recito il ruolo di due gemelli, di due persone che il pubblico deve saper distinguere parte del tempo ma altre volte no. Questa storia è basata su una storia vera: c’era una coppia di ginecologi a New York, Stewart e Cyril Marcus; io poi ho parlato con alcune donne che erano state loro pazienti e le donne stesse non sapevano distinguere chi fosse chi. Come si fa ad interpretare dei gemelli come attore? Non avevo assolutamente idea ed è stata questa sfida che mi ha spinto ad accettare il ruolo. Andai in Canada ed inizialmente un giorno andavo a comprare il guardaroba per uno dei gemelli, il giorno dopo compravo il guardaroba per l’altro. Mi ero fatto costruire due camerini separati in cui prepararmi e dopo due giorni di riprese con Cronenberg e Peter Suschitzky ci siamo messi a guardare le riprese iniziali ed era un disastro perché i due gemelli erano talmente diversi che non ci sarebbe mai stato modo di scambiarli l’uno per l’altro, quindi sapete cosa ho fatto? Ho preso tutti i vestiti e li ho mischiati, ho abbattuto le barriere tra i due camerini e ho trovato un modo interiore per distinguerli. Questo modo è estremamente facile, ma è come la magia: se sai il trucco sembra facile ma se non lo sai rimani estremamente strabiliato. Allora io ho identificato e localizzato i punti dell’energia: quando io ero nel ruolo di Elliot, che è il gemello più estroverso, è quello che parla, è quello che accetta i premi, ho messo tutta la sua energia al centro della fronte. Prima di tutto questo è il punto in cui si fa a testate e poi è anche il punto in cui gli indiani mettono il loro cerchio. Quando io ero in quel ruolo tutta la mia energia andava lì. Quando, viceversa, ero nel ruolo di Beverly che era il gemello più dolce, più accomodante e più riservato ponevo tutta l’energia alla base della gola che è un posto molto femminile, se vogliamo, ma anche il posto in cui si strangola. Ci sono delle scene in cui un gemello interpreta l’altro: allora in quel punto portavo i manierismi e i modi di comportamento del gemello utilizzando l’altro centro energetico per riuscire sempre a distinguere. Sono stato veramente fortunato a trovare questo metodo e mi ricordo anche che c’era quella scena in cui gemelli sono alla festa di compleanno e sono completamente strafatti di droga, anche a me piace fumare qualcosa, però non ho mai preso droghe pesanti. Così io e David avevamo un bloc-notes nero in cui avevamo annotato tutte le droghe e tutti gli effetti collaterali che ci potevano essere. Recentemente ho visto quella scena e non mi sono assolutamente riconosciuto, mi sono chiesto chi fosse quell’attore, non sapevo come ho fatto. Ma poi invece la risposta è che c’è un educazione ad avere un’immaginazione che sia concentrata, cioè imparare a concentrare la propria immaginazione. È meraviglioso essere qui in questo teatro. Io ho cominciato la mia carriera al Royal Theater di Bristol, un po’più giovane di questo, un po’più piccolo, ma qui mi sento veramente a casa.
Vorrei ritornare un attimo a quello di cui stavamo discorrendo prima, ovvero il non riconoscere se stessi quando rivedi un film o un pezzo teatrale, l’essere sconnessi tra se stessi ed il ruolo che una persona interpreta. Questo accade anche agli scrittori e l’arte prende una propria via creativa e ti porta in luoghi che non avresti mai anticipato. Vi racconto la storia di questo pezzo teatrale a cui ho partecipato: era di Tom Stoppard e si intitolava The Real Thing, diretta dal grande Mike Nichols, recentemente scomparso. Avemmo la serata d’apertura a Boston, prima di portare la recita a New York il giorno seguente e come accade poi eravamo tutti a cena e stavamo aspettando che suonasse il telefono per sapere quali fossero le prime critiche. Ad un certo punto squilla il telefono, Mike sorrise e mia moglie che non è capace neanche di aspettare di scartare un regalo, chiede se hanno menzionato quel gesto che ho fatto. Ed io le ho chiesto: “quale gesto”? Veramente non avevo idea di cosa stesse parlando. Praticamente mentre la donna che interpretava mia moglie sul palcoscenico mi stava dicendo che mi avrebbe lasciato, io ho fatto un gesto con le mani sopra la testa che non avevo mai fatto in vita mia e non mi apparteneva e non so neanche da dove sia uscito. I critici lo hanno adorato, pensate che dopo un paio di giorni ho ricevuto una lettera di una donna che diceva che quando lei aveva detto a suo marito che lo stava lasciando, lui aveva fatto esattamente lo stesso gesto. Quello che è vero è che non sia da dove sia venuto fuori, ma questo è tutto ciò a cui aspiriamo: entri dentro al personaggio e agisci senza nemmeno pensarci.
Claudio Carabba: Sei stato moschettiere, cavaliere, missionario in terre pericolose, seduttore crudele, e molti altri ruoli. C’è come una voglia di superare la noia e affrontare personaggi sempre nuovi?
Jeremy Irons: In merito ai molteplici ruoli che ho ricoperto nella mia carriera, lei ha assolutamente ragione: io mi annoio molto facilmente e poi non mi piace ricalcare i passi fatti da qualcun altro. Mi piace camminare nella neve fresca e lasciare la mia impronta personalissima. Quando mi arriva la storia deve essere interessante, deve essere emozionante, deve essere una sfida, magari qualcosa che non penso sia in grado di fare, può essere anche un rischio. Detto tutto ciò, io ho fatto anche svariati film per il vil quattrino, a volte per quantitativi di soldi inimmaginabili (spero che non vediate questi film, tanto non è che sono nei ruoli principali), ma questo finanziamento mi consente poi di perseguire altri progetti che mi stanno veramente a cuore. In fondo mi definisco una prostituta e concedo il mio corpo e il mio tempo per soldi. Non sono questo santo che persegue l’arte purissima. Oltretutto la vita non è solo recitare, la vita è vita, ce n’è una: negli ultimi sei anni ho curato un restauro di una torre medievale in Irlanda, la mia filosofia è cogliere e catturare la vita senza ripetere esperienze per assaporarla proprio in pieno.
Nicola Borrelli: Sarei curioso di sapere qual è il regista con il quale non hai mai lavorato ma con il quale vorresti tanto lavorare e anche il regista con cui ti sei trovato meglio e quello con cui ti sei trovato peggio.
Jeremy Irons: Beh… Qui avete avuto La grande bellezza, sarei veramente contentissimo di lavorare con Paolo Sorrentino. In verità mi piacerebbe lavorare con qualsiasi grande regista, magari anche con qualcuno che non conosco. Non mi metterò certo a fare i nomi di registi con cui ho lavorato bene e con cui non ho lavorato bene perché nessuna donna, in verità, dice quello che succede a porte chiuse.
Domenico De Gaetano: La mia domanda è molto semplice ma ci porta fuori dal cinema. Prima hai detto che non vuole ripetere, non vuole camminare sulle stesse orme di altri, allora volevo sapere se il tuo essere attore completa la sua creatività e se vorrebbe comunicare la sua creatività in altre forme, come scrivendo un romanzo, un libro, facendo fotografie, suonando. Ero curioso di sapere questo tuo aspetto.
Jeremy Irons: Mi piacerebbe moltissimo scrivere. In verità, in passato, ho scritto articoli per dei giornali e ho anche scritto una sceneggiatura per un film che poi non è mai stato realizzato. Il mio problema come persona è che io mi distraggo incredibilmente. Quando sono riuscito a scrivere qualcosa ero in un ambiente in cui mi concentravo solo su quello che stavo scrivendo; venivo nutrito, curato ed ero privo di distrazioni. Per quanto riguarda altre forme artistiche: in America Latina, durante le riprese di Mission, ho fatto migliaia e migliaia di foto che progressivamente sono migliorate, ma non è una strada che ho perseguito. Come regista, ho diretto un video della cantante Carly Simon [per il brano Tired Of Being Blonde, n.d.r.] e poi ho diretto un corto per la durata di un’ora che è stato prodotto per Channel Four ed era Mirad, un film sui rifugiati bosniaci. Adoro dirigere, mi piace molto di più di recitare, però qual è il problema di dirigere? È che ci metti due anni a mettere su tutto l’impianto e a trovare le persone e così via. Poi mentre stai filmando ti tagliano il budget, poi finisci di filmare con meno budget e devi metterlo in distribuzione e contrattare. Può diventare un disastro, quattro anni della tua vita che vengono buttati via. Come attore, in realtà, io sono un privilegiato: l’anno scorso ho fatto quattro film in sei mesi, se questi film saranno successi di botteghino condividerò il successo del film, se non ottengono successo pazienza, me ne scordo e vado avanti. Per potere scrivere ho necessità di estraniarmi ed è una cosa che voglio fare. C’è un libro che ho letto e vorrei adattarlo per farne un film. Altri sfoghi creativi: suono la chitarra e, con i miei amici, il violino.
Claudio Carabba: Hai interpretato personaggi raggelati, duri – penso al film che ti ha dato l’Oscar [Il mistero Von Bulow, n.d.r.] – in cui la tua maschera non è penetrabile e ci sono film invece come Il danno o Lolita, dove hai una maschera che si lascia travolgere dalle donne e dal destino, incapace di resistere alla forza della passione. Quale sono i personaggi che ami di più? Quelli che si lasciano travolgere o quelli che resistono?
Jeremy Irons: Vi rispondo tramite due analogie. Alla domanda se mi piaccia più interpretare i ruoli più duri o morbidi, immaginatevi un calendario dell’avvento però fatto a forma di casa. Succede che per alcuni ruoli io aprirò tutte le finestrine di questa casa, per altri ruoli ne apro una alla volta. Comunque quello che c’è all’interno della casa sono io, è la mia identità. La seconda analogia si può fare tramite il pianoforte a coda. Io sono quel pianoforte a coda: se aprite il pianoforte potrete vedere tutta una serie di corde; io, Jeremy Irons, sono una serie di accordi declinati che cambiano, che possono essere il maggiore o il minore, ma sono sempre quella famiglia di accordi che poi adatterò secondo le esigenze. Quando io vado ad interpretare dei ruoli, nella sicurezza e nell’ambiente tutelato del recitare, posso sperimentare con armonie o disarmonie completamente diverse, andando ad attingere a parti che non appartengono alla mia famiglia di accordi e vedere e creare dei suoni nuovi. Io sono quel pianoforte e quindi non riesco a dire se mi sia più congeniale suonare degli accordi maggiori o minori, perché sono il prodotto della pluralità dell’armonia; e i personaggi stessi che io vado ad interpretare hanno una ricchezza enorme. Una persona che è malvagia dentro non sa di essere malvagia, noi lo vediamo come malvagio, ma lui non lo sa: lui è quello che è. E a volte io mi sorprendo a guardare altre persone negli occhi e pensare: “ma..che cosa starà provando quella persona, cosa starà pensando?”, io lo posso solo immaginare ma non posso entrare. Ognuno di noi deve ricorrere al proprio pianoforte e attingere ai propri accordi.
Domanda pubblico: Volevo fare una domanda riguarda ad una tecnica d’attore. Lui, come molti attori britannici, usa benissimo la voce. Ci può raccontare un aneddoto riguardo ad un personaggio particolare che ha costruito proprio intorno al concetto dell’uso della voce?
Jeremy Irons: Io tento di ignorare qualsiasi effetto e qualsiasi cosa io abbia o posso avere. Io metto da parte l’effetto di ciò che posso avere. Perché, se tu per esempio, prendi coscienza della tua voce, detto da marchese, allora sei fottuto. Mi ricordo che stavo prendendo un caffè con John Hurt e stavamo parlando del gran numero di nuovi attori che stavano emergendo – tipo Daniel Day Lewis – e lui mi disse: «sai che cosa faccio io quando ho paura che queste nuove leve mi tolgano il posto?” E io gli dissi di no. Hurt disse: «guardate, dovete porre veramente attenzione alla vostra voce, avete sentito che voce meravigliosa che avete?» E da quel momento in poi sono fottuti.
Devo dire che quando ho lavorato a Il re Leone è stato un lavoro puramente vocale. Oltretutto viene registrata prima tutta la parte vocale e poi i personaggi vengono disegnati sulla base anche dei tratti fisici dei doppiatori. Il personaggio è disegnato e creato intorno alla voce stessa. Mentre registravo, molte volte i fumettisti, i disegnatori erano lì che stavano prendendo appunti, facendo schizzi, filmavano e così via. Devo dire che poi quando ho visto il film, prima vedo Mufasa che è maestoso con una criniera infinita, io invece ero Scar ed ero mingherlino, con una coda praticamente inesistente e pressoché calvo e non ci sono rimasto benissimo, ed ho chiesto: è così che mi vedete?
Claudio Carabba: Circolano leggende su un film che io amo molto, La maschera di ferro. È un film sui Tre Moschettieri, in cui Jeremy interpreta Aramis, Depardieu era Porthos, Malkovich era Athos. Nella parte del giovane Re c’era Leonardo Di Caprio. Circolano leggende che di Caprio si desse molte arie, facesse il divo, arrivasse in ritardo ed i tre moschettieri lo abbiano “seviziato” e riportato coi piedi in terra. È vero?
Jeremy Irons: in verità quando abbiamo girato The Iron Mask abbiamo filmato quasi tutto a Parigi e non mi ricordo se fosse la settimana o il mese della moda. Comunque vada, Leonardo ha preso vantaggio delle circostanze e si divertiva tutte le sere con le modelle. Mi ricordo che la mattina veniva dolcemente riversato sul set completamente strafatto ed esausto. Mi ricordo che noi tre eravamo molto invidiosi…
Domanda pubblico: nei ruoli che ha fatto ha mai usato controfigure?
Jeremy Irons: Non credo sinceramente di aver mai utilizzato controfigure o stuntman, magari mi sbaglio ma non ne ho memoria. So per certo che quando stavamo girando Mission, ed io ho il ruolo di Padre Gabriel, c’è la scena in cui scalo la cascata. Quando io atterrai a Cartagena, la prima cosa che feci mi tolsi le scarpe proprio per entrare nel ruolo e per quattro mesi ho vissuto scalzo proprio per sentire il diretto contatto con la terra e capire bene la cultura. Un giorno stavo scalando un pezzo di montagna scalzo quando si è staccato dal cornicione un pezzo di terra dalla mano e dalla terra. Il cameraman riuscì a filmare ciò e lui era entusiasta. Quel fine settimana parlai con il regista Roland Joffé e mi disse che si sarebbe girata la scena della scalata della cascata con le controfigure ed io dissi che volevo girarla senza stuntman. Fortunatamente il produttore era andato a casa nel fine settimana e così convinsi il regista a farlo. […] È stata una cosa eccezionale perché consente al pubblico di sospendere quell’incredulità: entri nel film e dici che è veramente accaduto.
Prima di concludere l’incontro, Jeremy Irons si è congedato dal pubblico del festival lucchese recitando una poesia di Christopher Logue, dedicata ad Apollinaire. Dal minuto 2:10 di questo link è possibile sentirla direttamente dalle parole di Irons.
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