Se si chiedesse all’uomo della strada di associare una qualsiasi dipendenza al mestiere dello scrittore, molti indicherebbero subito e senza esitazione l’alcolismo. In effetti il connubio tra alcol e scrittura è stato mostrato come così frequente e così serrato da far superare a quest’idea i confini del semplice stereotipo fino a fargli quasi ottenere il rango di topos.
In effetti questa considerazione è suffragata da un discreto numero di prove materiali, a partire dagli autori del Decadentismo (inclusi i famosi poeti maledetti): Edgar Allan Poe, che sull’alcolismo scrisse il racconto L’Angelo del Bizzarro, Arthur Rimbaud, Paul Verlaine, per non parlare dello stesso Baudelaire che ha dedicato al vino la terza sezione della sua più celebre opera poetica, I Fiori del Male. Questa singolarità della poetica di Charles Baudelaire ci consente di comprendere con maggior chiarezza il posto che il vino – e quindi per estensione la dipendenza dall’alcol in generale – occupava nella mentalità degli autori decadenti. Il Vino de I Fiori del Male è la prima di quattro sezioni (le altre sono Fiori del Male, Rivolta e Morte) in cui Baudelaire rappresenta un particolare tentativo di evasione dalla vita sociale, pertanto Il Vino rappresenta, per dirla con le parole dello studioso Gabrio Pieranti, «il tentativo del poeta di trovare rifugio nell’alienazione dei paradisi artificiali della droga e dell’ebbrezza alcolica, scoprendo, però, quanto effimeri essi siano, capaci di donare soltanto una breve illusione di libertà per lasciare al risveglio il posto alla desolazione».
Un simile, forte influsso l’alcolismo lo esercitò anche sulla Scapigliatura e falciò molti dei suoi esponenti, come il poeta Emilio Praga. Anche il buon Giovanni Pascoli ha tutto il diritto di essere annotato in questa poco lusinghiera lista: se è indubbio che Pascoli non fosse un alcolizzato è altrettanto indubbio il suo amore per la bottiglia, difatti si presume che la causa della sua morte – a 57 anni – sia stata una cirrosi epatica. A ulteriore conferma del fatto che al poeta facesse piacere un bicchierino (o più) tra un componimento e l’altro, c’è la presenza nel giardino all’italiana della sua villa di Massa, tutto siepi e viottoli, di diversi tavolini marmorei dove Pascoli aveva piacere di dissetarsi, magari in compagnia di amici.
Tuttavia la fama dell’alcolismo (o comunque una forte dipendenza dall’alcol) come compagno della scrittura è dovuta in gran parte al Novecento, soprattutto agli autori dell’area anglo-americana: James Joyce, Francis Scott Fitzgerald, Charles Bukowsky, William Faulkner (che però, a differenza di molti suoi colleghi, non beveva né durante la scrittura dei suoi libri né durante la loro elaborazione), Jack Kerouac e Truman Capote (entrambi morti di cirrosi epatica), Dorothy Parker, Dylan Thomas, Tennessee Williams, le cui capacità di narratore furono irrimediabilmente corrotte dal bere, Raymond Chandler, Jack London e soprattutto Ernest Hemingway, che coniò il famoso motto «write drunk, edit sober».
Giunti alla fine di questa lunga e desolante lista non può che sorgere una domanda: perché? C’entra forse il fatto che, in quanto artisti, gli scrittori abbiano un animo più sensibile, la cui disperazione può essere silenziata solo con l’uso di alcol o sostanze stupefacenti, andando quindi a creare una dipendenza da queste? Quindi, riassumendo in poche parole: è vero che esiste un legame tra alcolismo e scrittura? Per rispondere al quesito non ci sono parole migliori di quelle di Stephen King. Com’è noto, anche King ha avuto il suo lungo trascorso di dipendenze, che tuttavia è riuscito non solo a dominare e superare, ma anche, coraggiosamente, a raccontare nella prima parte – Curriculum Vitae – della sua autobiografia On Writing – Autobiografia di un mestiere (chi ce l’ha la consulti, chi non ce l’ha la comperi), di cui riportiamo ampi stralci: «Gli alcolisti costruiscono difese come gli olandesi costruiscono dighe. Io passai i primi dodici anni circa della mia vita coniugale assicurando a me stesso che “mi piaceva semplicemente bere”. Avevo anche sposato la celebre Difesa Hemingway […]: come scrittore, sono una persona molto sensibile, ma sono anche un uomo, e i veri uomini non cedono alla loro sensibilità. […] Pertanto bevo. Altrimenti come potrei affrontare l’orrore esistenziale e continuare a lavorare? E poi, andiamo, lo reggo bene. Un vero uomo lo regge sempre. Poi, nei primi Anni Ottanta, nel Maine entrò in vigore una legge sui vuoti e le lattine riciclabili. Invece di finire nell’immondizia generica, le mie lattine di Miller Line […] cominciavano a finire in un contenitore di plastica che tenevamo nel box. Un giovedì sera uscii a gettare via qualche cadavere e vidi che il contenitore, svuotato solo il lunedì sera, era quasi pieno. E siccome io ero l’unico in casa a bere Miller Lite…
«Cazzo, sono un alcolista, pensai, e non udii nella testa nessuna voce che dissentisse […]. Nel 1985 avevo aggiunto alla mia dipendenza dall’alcol quella dalla droga […]. Alla fine a farmi decidere fu Annie Wilks, l’infermiera psicopatica di Misery. Annie era la coca, Annie era l’alcol, e decisi che ero stanco di essere lo schiavo-scrivano di Annie. Temevo che avrei smesso di scrivere se avessi smesso di bere e di drogarmi, ma conclusi […] che avrei rinunciato a scrivere per conservare il mio matrimonio e veder crescere i bambini. […] Non fu così, naturalmente. L’idea che lo sforzo creativo e le sostanze che alterano la mente siano strettamente legati è una delle più grandi mistifcazioni pop-intellettuali del nostro tempo. […] Lo scrittore tossicodipendente è nient’altro che un tossicodipendente, sono tutti in altre parole comunissimi ubriaconi e drogati. […] Non importa se sei James Jones, John Cheever o un barbone avvinazzato che russa alla Penn Station […]. Hemigway e Fitzgerald non bevevano perché erano creativi, diversi o moralmente deboli. Bevevano perché è quello che fanno gli alcolisti. Probabilmente è vero che le persone creative sono più vulnerabili di altri all’alcolismo e alla dipendenza dagli stupefacenti, e allora? Siamo tutti uguali quando vomitiamo ai bordi della strada».
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