Da Lucca a Pisa: CRONENBERG
David Cronenberg – I corti di Cronenberg
Una novità è sorta sotto i cieli cinematografici toscani: l’Arsenale – famoso cineclub pisano – ha stretto una collaborazione con il Lucca Film Festival in modo da proporre parallelamente, eventi inediti o già proposti durante il Festival diretto da Nicola Borrelli. Oggetto di questa recensione sono i corti di David Cronenberg: cinque frammenti che il regista canadese ha girato in diversi momenti della sua carriera, cinque esperienze extra-cinematografiche che raccontano e mostrano questo cineasta alla prese con il mezzo televisivo e con il cortometraggio promozionale.
La serata è aperta da The Lie Chair, episodo della serie-tv Peep Show che tra il 1975 e il 1976 fungeva, in Canada, da contenitore delle prime esperienze di giovani autori e cineasti. Cronenberg è presente in questa serie-tv anche con l’episodio The Victim. The Lie Chair è un classico horror sovrannaturale che affonda le proprie le radici nell’horror inglese e statunitense del periodo. La storia di due sposini che capitano, in una notte di pioggia, in una magione abitata da due vecchie che cominciano a chiamarli con il nome dei nipoti defunti, è la più classica delle ghost-stories. Qualche esempio? E se oggi…fosse già domani (Voices, Kevin Billington, 1973) e Carnival of Souls (Carnival Of Souls, Hank Harvey, 1962). Cronenberg, come regista, si mette in un angolo e ci regala 30 minuti scarsi di teatro (nero) filmato. La messa in scena soffre di quel tipico taglio televisivo (si potrebbe dire da sit-com, con molti primi piani e mezze figure), ma lo svolgimento degli eventi e il colpo di scena finale sono più che validi per promuovere questa favola nera.
Tra Il demone sotto la pelle e Rabid, Cronenberg collabora ancora con la televisione e nel 1976, per la serie-tv Teleplay, crea The Italian Machine. La passione di Cronenberg verso i mezzi motorizzati è una cosa nota, così come è nota l’importanza che lui da agli ingranaggi di un motore, da sempre paragonati agli ingranaggi celebrali. In The Italian Machine, la nuova carne mutata in metallo prende altre strade da quello che si potrebbe pensare nei primi minuti del video. Si può leggere questo cortometraggio più come una riflessione sull’arte contemporanea che una riflessione sul mondo delle corse (Fast Company) o uno sprofondamento sessuale alla ricerca dello squarcio nella lamiera (Crash). Tant’è vero che la moto desiderata da uno dei protagonisti, una Ducati 900 Desmo Super-Sport, è finita nel salotto di un ricco collezionista che ha anche come “pezzo d’arte” un playboy latino con il vizio della cocaina. Cronenberg porta in scena il corto-circuito dell’arte più che della mente, e in chiave “duchampiana” mette mette alla berlina i collezionisti d’arte interessati solo al valore economico e demolisce un sistema artistico borghese. Ghezzi, in un suo Fuori Orario di qualche anno orsono, lo definì il «più geniale di tutti i cortometraggi televisivi di David Cronenberg» e continuò dicendo che in The Italian Machine è contenuta «la più dura profezia sull’arte contemporanea che sia stata proferita al cinema».
Facciamo un salto di 24 anni per arrivare al 2000, anno produzione di Camera. Questo corto fu realizzato nel venticinquennale del Toronto International Film Festival: sei minuti di confessione di un interprete cronenberghiano come Les Carlson (La mosca, Videodrome), sei minuti di un anziano attore che ci fanno capire come davvero il cinema (ed in passato la fotografia) poteva essere il mediatore tra la vita e la morte; e non è un caso che la troupe cinematografica rappresentata in questo corto sia formata da soli bambini. Insieme al finale di M. Butterfly, si può considerare Camera come uno dei frammenti più toccanti di tutta la filmografia dell’autore canadese. Nel 2007 il Festival di Cannes celebrò i 60 anni di esistenza. Gilles Jacob riuscì nell’impresa di costruire un film a micro-episodi, intitolato, Chacun son cinéma, girato da più importanti autori che in qualche modo hanno avuto rapporti con il florido festival francese: si passa da Cronenberg a Lynch, da Lars Von Trier a Polanski, da Alejandro González Iñárritu a Nanni Moretti passando per Gus Van Sant e Wim Wenders. Il segmento girato da Cronenberg è, forse, la cosa più folle, comica, satirica e grottesca mai partorita dalla sua mente. In At the Suicide of the Last Jew in the World in the Last Cinema in the World, vediamo Cronenberg stesso che interpreta (lo aveva già fatto in altre circostanze, sia nei suoi film che in opere di altri, basti pensare a quel cult-film chiamato Cabal di Clive Barker) l’ultimo ebreo sulla terra che tenta di suicidarsi nell’ultimo cinema rimasto sulla terra, inquadrato da una camera di sorveglianza mentre due speakers del telegiornale stanno parlando sulle sue azioni e su cosa succede al di fuori di questo spazio angusto. Un’opera minimalistica, giudaica ed apocalittica.
L’ultimo frammento che ci è stato proposto dai selezionatori del Lucca Film Festival è The Nest: opera del 2014 che vede Cronenberg ritornare a lavorare su un contesto medico-scientifico a lui così caro nella prima parte della carriera. Una donna sui trent’anni si trova su una barella medica ed è visitata da un dottore (Cronenberg stesso, di nuovo). A lui confessa che vuole asportare il seno sinistro perché crede che al suo interno sia nascosto un nido di insetti. Seguirà la visita medica, discussione su quale soluzione mettere in pratica e accettazione dell’operazione. Cronenberg torna sul luogo del delitto, l’ambiente ospedaliero, ma ribalta ogni prospettiva: gli ambienti asettici e fintamente accoglienti come potevano essere lo Starline Tower di Shiver o la House of Skin di Crimes of Future sono ormai un lontano ricordo; la visita si svolge in una specie di scantinato con le mura incrostate di sporco e di intonaco a vista, con materiale di magazzino, tubature e contatori energetici. Se negli anni ’70, come ben afferma Claudio Bartolini, l’orrore nasceva dalla scienza e quindi dalla figura del mad-doctor, negli anni ’00 è la scienza che si deve prendere carico di un umanità già infettata.
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