American Sniper (American Sniper, Clint Eastwood, 2014). Con Bradley Cooper e Sienna Miller.
Clint Eastwood, op. 34. “Ambiguo ma non troppo”
Alla quinta settimana il film ha incassato in Italia più di diciotto milioni di euro. Con l’inizio pochi giorni fa del processo all’assassino del SEAL Chris Kyle, torna materia fresca di dibattito. Banali considerazioni demografiche ci inducono a pensare che la maggior parte di voi lo abbia visto o ne sia venuta a conoscenza. Un film, “American Sniper“, che ha fatto parlare molto e molti. E’ sufficiente l’esitazione iniziale, sapientemente servita come antipasto nel trailer, a far scaturire un universo. A noi fa sempre piacere quando un’opera di queste proporzioni è in grado di rimestare le coscienze. Dopo una carriera come quella di Clint Eastwood, che vanta all’attivo la direzione di più di trenta film, riteniamo sia questa la massima aspirazione di un grande regista che continua a sfornare lavori importanti, pur non dovendo preoccuparsi della pensione.
Vi capita mai, uscendo da un cinema, di provare invidia verso le persone in coda per la proiezione successiva? Oppure, distrattamente, vi è mai successo di origliare e appassionarvi ai commenti di altri spettatori? Magari scaldandovi come nella celebre scena della coda al cinema in “Io e Annie“. Su “American Sniper” le opinioni si sprecano, al tal punto da indurci ad azzardare un viaggio insolito, pericolosamente relativistico: una critica post-critica. Cosa che potrebbe portare a una discussione interminabile. Ma noi, mica dobbiamo produrre leggi.
Un cecchino americano alla prima missione in Iraq non ha mai ucciso un uomo e subito è catapultato nella guerra con una decisione da prendere. Mentre il convoglio amico procede tra le rovine, una donna e un bambino sospetti avanzano verso i militari. Il cecchino li ha sotto tiro, può ucciderli col gesto di un dito. Se sbaglia valutazione in un senso si sarà macchiato di un crimine e dovrà rispondere alla corte marziale, altrimenti potrebbe aver non impedito l’ennesimo attacco-bomba. L’esitazione del dito sul grilletto ci rimanda alla sua infanzia, all’iniziazione del primo fucile ricevuto in dono, al primo cervo ucciso, al primo cuore che ha cessato di far battere. Tutto ciò che viene dopo è il proseguo della vita di Chris Kyle (Cooper), il cecchino più letale della storia degli Stati Uniti.
La mattina in cui il cecchino Eastwood si sveglia e sa che dopo la colazione inizierà a scrivere il nuovo script (lo sceneggiatore in questo caso è Jason Hall), sorseggia il suo tè con la tranquillità di chi di B-Day ne ha passati tanti. E’ sicuro perché ogni suo film, prima ancora che venga battuto il primo carattere, con merito riconosciuto, ha un potenziale a priori. Vuoi l’autore, vuoi gli argomenti trattati, vuoi l’uscita strategica, ci sono film che muovono tutta una serie di spettatori pigri che vanno al cinema due volte l’anno. Tecnicamente quasi ineccepibile, “American Sniper” non è un’opera del tutto guerrafondaia e militarista come qualcuno ha tentato di far credere. Prima che al “film di guerra” o al “biografico”, esso appartiene all’innato genere del grande classico contemporaneo.
Movimenti rigorosi, trama chiara e lineare negli scalini temporali in cui la guerra offre spunti per condurre il protagonista (personaggio dotato di pochi mezzi per farlo autonomamente) lungo una discesa verso la consapevolezza di sé e del proprio ruolo. Gradino per gradino, di missione in missione, dopo il primo sparo tutto viene da sé. Un colpo dopo l’altro Chris Kyle si avvicina sempre più al bersaglio. La guerra moderna è un impiego che prevede l’alternanza tra turni di pochi mesi e licenze, a ogni rientro a casa la mente e il cuore sono sempre più rivolti al fronte bellico e non a quello familiare. Il personaggio-angelo custode dei marines, che dalle finestre di abitazioni devastate protegge l’avanzata dei suoi con la facilità di un click sulle teste dei nemici, prima che angelo custode è lo stereotipo del duro texano: cazzotti, rodeo e birra. Tradito e mollato dalla ragazza che aveva trascurato, arruolatosi a trent’anni dopo essere stato messo al muro dalla vita in casa propria, la sua guerra è iniziata ben prima degli spari. Ben prima che lo stridio degli attentati in TV facesse esplodere la campana di vetro attorno al comune cittadino timorato di Dio, dall’infanzia segnata da insegnamenti su pecore, lupi e cani da pastore.
Il fatto che prima di Eastwood, registi come Spielberg e O. Russel si siano tirati indietro per la realizzazione del film, la dice lunga sulla complessità di erigere quella che sarebbe stata una grande opera (e lo è) sul terreno a rischio sismico di fresche premesse biografiche, politiche e umane a cui attenersi. Detto questo, commentando il film, non possiamo renderlo più complesso di quello che è. C’è un vago alone di mistero, lungi dal viaggio lungo il Nung di Willard in “Apocalypse Now“, nella figura del cecchino nemico, un’ombra imprendibile che si aggira tra i palazzi distrutti mietendo vittime. Un ex-atleta olimpico che forse, senza la guerra, sarebbe stato destinato a ben altra esistenza. Solo a tratti la guerra ci è proposta come percorso, una discesa a scalini-missioni che inizia e finisce in casa propria. Al di là delle mutilazioni e delle ferite, in parte sanabili con le moderne protesi, esistono altri tipi di ferite, che sfuggono pure all’occhio dotato del cecchino. Tutto questo non è stato sufficiente ai più per non esaltarsi delle gesta eroiche del soldato Kyle, un uomo seccato dal sentirsi chiamare “la Leggenda” dai quei commilitoni che lui, nel suo nobile fatal flaw, voleva aiutare, in ogni modo e ovunque. Del resto, chi si limita a esaltarsi delle sue gesta è solo una “pecora”. L’ambiguità la si può trovare, forse, nella vicinanza naturale tra “lupi” e “cani da pastore”.
Pillola sulla dualità dell’essere umano, da Full Metal Jacket (Stanley Kubrick)
Leo D’Arrigo
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interessante ed essenziale, spinge ad approfondire ed
invita a chiedersi chi fosse veramente l’uomo al di là del soldato diventato una leggenda nelle guerre che non finiscono mai e ti segnano per sempre. Alla terza recensione ancora uno stile che rivela competenza e passione