«Né servi né padroni» credo che sia l’essenza stessa del pensiero anarchico, l’origine vera e profonda della nostra continua ricerca di vita e del desiderio di mutare l’uomo oltre che questa società e il modo di vivere che ovunque impera.
Questo fa sì che questa idea, che può avere poi molte vibrazioni diverse, sia sentita come nemica dalla sinistra e dalla destra, dalle religioni e dalle multinazionali, dai dirigenti e dai servi, dai sottomessi e dai capi, dai funzionari e dagli impiegati della vita.
L’anarchia mette in discussione il potere… che è il vero dio di innumerevoli concezioni del mondo, anche se apparentemente diverse fra loro.
Le persone, purtroppo, si accontentano spesso dello status quo sociale, culturale, politico, ideale, ideologico, mentale, esistenziale. Amano ciò che porta sicurezza, anche se ha in sé dolore e sofferenza. Essere servi o essere padroni è più facile che cercare la libertà e provare a essere liberi.
L’anarchia ha poco a che fare col comunismo, soprattutto con il comunismo autoritario e statalista (da Lenin a Stalin).
In Ucraina, a Kronstadt e in Spagna nel ’36 i comunisti hanno ucciso gli anarchici e represso il loro germoglio di altri mondi possibili, per timore che il loro stesso concetto di società – controllata dal partito (o da forme similari e verticistiche) – fosse messo in discussione profondamente dal basso. Ken Loach, geniale regista, offre spunti sconvolgenti di riflessione nel suo film Terrà e Libertà; Orwell ne parla in Omaggio alla Catalogna e in 1984 oltre che in altre sue opere. Oscar Wilde in L’anima dell’uomo sotto il socialismo fa intravedere altre possibilità dell’umanità. Per non parlare di Max Stirner, Luisa Berneri, Emile Armand, Luce Fabbri, Paul Avrich, Emma Goldman, Malatesta, Alfredo Maria Bonanno, Kropotkin, Godwin, Bakunin, Libertad, Virginia D’Andrea, Michael Onfray, Murray Bookchin, Buenaventura Durruti, Molly Steimer, Thoreau, Noam Chomski, Albert Camus.
Per gli anarchici il fine non giustifica i mezzi, ma il mezzo determina il fine, e vogliono che tutti possano arrivare alla “bellezza” … non stupidamente abolirla e distruggerla o renderla solo patrimonio dei burocrati.
Molti libri sono “approssimativi” e talvolta persino “superficiali” nell’affrontare la profondità del sentire anarchico.
Talvolta si parla dell’anarchia con un risolino di compiacimento ignorandone il vero e profondo significato, considerandola una sorta di utopia o di teatrino di sognatori… per non parlare di chi la confonde col caos o semplicemente con i black bloc, senza capire che azione e pensiero si fondono insieme per combattere ovunque e comunque l’ingiustizia sociale ed economica.
Gli anarchici non sono dei pacifisti e non aspirano ad alcun posto di controllo degli altri o della morale pubblica.
Lo sfruttamento è fondamentalmente il cuore della società del “dominio”, del “potere”.
Talvolta si utilizzano parole complesse, formule labirintiche, filosofie astruse per cercare di definire cosa sia economicamente, culturalmente, socialmente, esistenzialmente.
Saggi e articoli sono stati scritti sull’argomento, facendolo divenire un fatto su cui confrontarsi, anche se senza mai giungere a possibili soluzioni e azioni, allontanandosi volutamente o inconsapevolmente dall’origine del problema.
Rileggendo Vivere l’anarchia, un libro di Émile Armand, individualista francese, che contiene scritti scelti e presentati da Prandstraller, pubblicato nel 1983 dalle Edizioni Antistato, trovo parole di una semplicità sconcertante che dovrebbero farci riflettere e pensare:
«Gli individualisti anarchici sono avversari dello sfruttamento per le stesse ragioni che li fanno nemici della dominazione. lo sfruttamento ripugna loro quanto l’autorità. Essi negano ch’esso compia una funzione utile alla formazione e alla realizzazione dell’essere individuale; si rifiutano in maniera assoluta di considerarlo come un fattore di liberazione e di emancipazione della personalità umana; lo considerano, al contrario, come eminente dannoso e pericoloso allo sviluppo normale dell’unità umana. Essi ne tengono conto come un succedaneo di un nuovo aspetto della schiavitù e del servaggio; per essi non è che un sistema d’oppressione destinato a consolidare ed a perpetuare la servitù e la dipendenza economica dell’uomo.
(…) Infatti cosa bisogna intendere per sfruttamento?
Nel senso che gli attribuiscono gli individualisti, lo sfruttamento equivale ad un “sistema grazie al quale un uomo, una società, un’istituzione sociale po’ – e questo con tutta sicurezza – captare, accaparrare, requisire, stornare, prelevare a suo profitto tutta o parte della produzione individuale d’un essere umano, malgrado la sua resistenza, la sua opposizione o le sue proteste, allorché lasciato indipendente egli disporrebbe a suo piacere o suo vantaggio ben altrimenti di come vi è costretto, di detta produzione.
(…) Sfruttatore è anche colui che possiede o detiene dei mezzi di produzione – utensili, macchine, suolo, ecc. – ch’egli non è atto a far funzionare o a metter in valore di da se stesso. o che possiede un capitale maggiore di quello ch’egli avrebbe potuto accumulare se non si fosse trovato in questa circostanza favorevole. E’ il privilegiato, il monopolizzatore, al quale la sovrabbondanza, l’accaparramento di capitali o mezzi di produzione permette di collocare, appaltare, retribuire – allo scopo di trarne un beneficio – il lavoro e le attitudini altrui.
È uno sfruttato chiunque, trovandosi spoglio o comunque privo del mezzo di produzione, è costretto od obbligato vendere ad un privilegiato qualunque le sue capacità cerebrali o muscolari; situazione di inferiorità che lo priva del godimento o della disposizione dell’integralità del suo sforzo.
È ugualmente uno sfruttato chiunque è impedito – quale che sia la forma o l’origine dell’ostacolo, dell’impedimento, della restrizione, – di godere o di disporre del proprio talento del suo prodotto personale, quando anche fosse detentore del mezzo di produzione.
È evidente, in base a queste differenti definizioni, che la scomparsa del sistema di sfruttamento è conseguente al possesso, definitivo ed inalienabile da parte del produttore – isolato od associato – dei mezzi di produzione – attrezzi, macchine, suolo, ecc. – ch’egli è in grado di azionare o mettere in valore da se stesso.
Il giorno in cui la mentalità generale sarà tale da non consentire ad alcuno di possedere mezzi di produzione in quantità superiore alle sue forze ed alle sue capacità personali, non si avrà più né privilegio né monopolio.
L’abolizione dello sfruttamento è egualmente legata alla soppressione della dominazione».
Ancora suona nella mia mente un motto, un pensiero della Confederationon National de Trabajo: «Si nadie trabaja por ti, que nadie decida por ti» (Se nessuno lavora per te, che nessuno decida per te).
Un altro mondo e modo di vivere è possibile in questa terra?
Difficile rispondere, anche se credo in questa idea che non è utopia ma forza di vita.
La vita è imprevedibile, misteriosa, difficile, bellissima, unica nostra possibilità di essere ed esistere.
Lo spirito di rivolta non deve morire, essere soffocato dalla rassegnazione o zittito dalla storia del potere che ha sempre aggredito l’anarchia come inizio di un’altra possibile diversa esistenza, ma essere portato ovunque, in mille modi e molte forme, come un seme che prima o poi forse germoglierà (nelle persone, negli individui, in qualche terra, nei rapporti, in qualche luogo, in altre situazioni).
Mai sottomessi… né servi né padroni di nessuno dobbiamo sentirci, essere.
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