L’arte dell’arazzeria, basata su un sapiente intreccio di fili costituenti la trama e l’ordito, in grado di realizzare una fitta rete di filato indissolubile, può essere considerata una degna rivale della tradizionale pittura. Il manufatto è, infatti, una calibrata combinazione tra sapienza artigianale e rappresentazione artistica. Con il termine arazzo si intende un tessuto istoriato e decorato con un particolare lessico figurativo. La definizione italiana, inoltre, fa riferimento specifico alla città fiamminga di Arras, centro in cui pare questa arte sia nata in periodo medievale. Date le sue caratteristiche, in certe aree geografiche è anche conosciuto come tappeto murale, essendo destinati alle pareti delle stanze. Gli arazzi, infatti, non nascono come mero strumento decorativo ma erano soprattutto utilizzati come isolante termico, e anche come protezione contro l’umidità, durante l’inverno. In quest’ottica non risulta neanche casuale che il loro luogo di nascita fossero le Fiandre, in cui trovavano la giusta ragion d’essere nei freddi saloni dei castelli, difficilmente riscaldabili.
Le origine del manufatto sono molto antiche, ma l’alta deperibilità delle materie usate ha influito sulla qualità e la quantità dei pezzi superstiti nel tempo. Gli esemplari più antichi risalgono all’antico Egitto, la cui esecuzione risulta essere la più complessa, e alla Grecia, ma ampiamente diffusi anche in Giappone e in America latina.
Lo strumento necessario alla produzione è il telaio che può essere di due tipi, ad alto e basso liccio. Pare non esistano delle norme prestabilite per assicurare una giusta tensione, ma che la forza dell’intreccio dipenda dalle abilità e dall’esperienza del tessitore, nonostante sia la condizione necessaria per assicurare compattezza e stabilità al prodotto.
La tecnica tessile prevede che nell’arazzo la trama sia dominante, tanto che a lavorazione ultimata i fili di ordito non sono più visibili, ricoperti totalmente dai sottostanti. Essendo questa l’unica parte visibile, i fili della trama sono generalmente costituiti da materiali molto pregiati quindi lino, seta ma anche oro e argento.
Dato il grande formato, gli arazzi potevano mettere in scena composizioni dettagliate e di rilevanza creativa. Il disegno decorativo degli arazzi, infatti, era generalmente preparato da un pittore, spesso anche famoso. Il disegno sul cartone, a grandezza naturale, poteva essere realizzato a guazzo o raramente con colori a olio. Tuttavia l’artista non poteva sentirsi libero di esprime il suo estro creativo dovendo tener presente la qualità del materiale e il processo tecnico di lavorazione. Da un punto di vista logistico, la tessitura dell’arazzo richiedeva una predominanza dell’esecuzione sulla progettazione. Il tessitore, basandosi sulla propria conoscenza relativa alla diversità materica dei possibili filati da usare, era autorizzato ad adeguare il disegno finale in base all’effetto da ottenere. Nonostante nel corso dei secoli la figura del pittore di cartoni sia andata sempre più a identificarsi con l’artista di corte, alla metà del Quattrocento, ad Anversa, esisteva una sorta di fiera in cui erano venduti i cartoni da usare come guida, un modello da riprodurre innumerevoli volte.
In questo caso, quindi, una volta che i cartoni erano diventati proprietà dell’arazziere, il ruolo dell’autore del progetto veniva totalmente a decadere. Probabilmente a causa di questa tendenza, alla fine del secolo, a Bruxelles, si sentì la necessità di regolare i rapporti tra arazzieri e cartonisti, stabilendo che ai pittori spettasse il compito di ideare arazzi a figure, mentre i tessitori potevano eseguire solo motivi ornamentali, ossia inserti paesaggistici, fogliame, erbe ossia senza presenza umana. La collaborazione tra pittori famosi e arazzieri, inoltre, ha messo in evidenza eventuali discrepanze tra il progetto originario e resa finale. Il risultato, a quel punto, dipendeva dall’abilità del maestro arazziere di tradurre in tela ciò che era rappresentato sui cosiddetti cartoni preparatori. La scelta del materiale da utilizzare, vincolato alla qualità e allo spessore del filo, così come dei colori, variava, quindi, in base al modello di cartone da riprodurre. Per rimanere fedeli al disegno, sperando di non commettere errori, con la lavorazione a telaio verticale l’arazziere si sedeva dietro al telaio avendo davanti quello che poi sarebbe risultato essere il retro dell’arazzo, dopo aver posizionato il cartone guida alle sue spalle. Per avere piena padronanza del lavoro, quindi, il tessitore doveva servirsi di uno specchio in modo da aver davanti agli occhi l’effettiva percezione dell’immagine finale, controllando via via nel giusto verso.
Con il telaio orizzontale, invece, l’immagine era riprodotta con il procedimento inverso, motivo per cui era necessario trasportarla in controparte. Questo procedimento, permettendo una lavorazione più veloce, era la più diffusa perché quella molto più economica.
Il successo riscosso dall’arazzeria è dovuto probabilmente alla trasportabilità dei manufatti. A differenza degli affreschi, ad esempio, gli arazzi potevano essere staccati, arrotolati e trasportati oppure essere utilizzati in più occasioni, alcune anche celebrative.
La diffusione del prodotto in Europa risale circa al XIV secolo, prima in Germania e Svizzera, poi Francia e Olanda. Un famoso esempio di arazzeria fiamminga è costituito dal ciclo La dama e l’unicorno, adesso conservato al museo parigino di Cluny, oppure il ciclo dedicato alla Crocifissione, del Museo Civico di Forlì, attribuito a Pieter van Aelst, senza dimenticare il ciclo barocco di Palazzo Mansi a Lucca. Sono molti i casi in cui pittori famosi hanno dedicato la propria creatività per realizzare cartoni preparatori. Faccio riferimento a Raffaello, con i suoi celebri Atti degli Apostoli, di cui esistono più versioni, realizzato nelle Fiandre. Delle varie copie una è conservata in vaticano, una nel Palazzo Ducale di Mantova e una terza a Urbino, mentre i disegni preparatori si trovano al Victoria and Albert Museum di Londra. I cartoni sono stati realizzati a Bruxelles, nella bottega di Pieter van Aelst, tra il 1515 e il 1519. L’esecuzione richiese molto impegno, tanto che pare il Sanzio avesse momentaneamente abbandonato la lavorazione alle vicine Stanze Vaticane, poiché gli arazzi erano destinati a ricoprire il registro inferiore della Cappella Sistina. Un’altra serie degna di nota è quella commissionata a Pontormo e Bronzino da Cosimo de’ Medici. Il caso di Rubens come disegnatore di cartoni è un caso esemplare: l’artista, infatti eseguì a olio invece che a tempera i bozzetti per la serie dedicate alla Storia di Costantino, ma impose un cambiamento sostanziale nella storia del manufatto, sostituendo le bordure con delle inquadrature geometriche evidenzianti la presenza umana.
Anche Goya, Picasso e Mirò non hanno rifiutato di fornire cartoni. Di fatto però, dalla fine del XVIII secolo, con lo sviluppo dell’industria e il conseguente aumento del costo della manodopera, la passione per l’arazzeria ha cominciato a spegnersi. Tuttavia, grazie all’iniziativa di Enrico Accatino, negli anni Sessanta l’Arazzeria Pennese ha dato un nuovo input positivo all’arte tessile in Italia. Promotori di questa ondata di rinnovamento sono stati sicuramente artisti quasi Guttuso, Klee, De Chirico, Kandinskij. Sulla scia di questa, realtà tuttora esistente è quella dell’Arazzeria Scassa di Asti che, situata in un monastero vallombrosiano, si divide tra un laboratorio di restauro di arazzi antichi e un museo. Negli anni Cinquanta, per iniziativa di Ugo Scassa, l’azienda cominciò la sua attività come Italia disegno, specializzata nella produzione di tappeti annodati a mano. Nel 1960 è diventata laboratorio artigianale di tessitura di arazzi con telaio ad alto liccio, e nello stesso anno vinse il concorso per la decorazione del transatlantico Leonardo da Vinci, con sedici arazzi basati su progetti di Cagli Corpora, Turcato, Capogrossi, Santomaso e Bernini.
Questo dimostra che un’arte nata quasi per necessità ha saputo aggiornarsi e restare attuale anche in un epoca in cui la tessitura può sembrare una tecnica artistica quasi obsoleta, difficile da adattare a un pubblico contemporaneo.
Cristina Gaglione
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