Colloquio con un professore universitario irlandese: da Joyce a Proust, il rapporto fra letteratura, famiglia ed elementi del romanzo gotico.
Lo troviamo appoggiato a una parete, con il giacchetto in braccio, a due passi da Largo Ciro Menotti e dalla libreria Ghibellina. Non dà l’impressione di un professore universitario, Barry Mccrea.
Forse dello scrittore. Ma di accademico ha ben poco, almeno per gli standard italiani: il tono della voce, la gentilezza e il modo di porsi allo stesso livello dell’interlocutore (in maniera del tutto naturale) sembrano molto lontani dallo stereotipo cattedratico, pomposo e austero che abbiamo di certi professori nostrani.
D’altra parte, quando ci sediamo per bere un aperitivo e parlare di libri e università, è lui stesso ad ammetterlo: “Non nutro grande simpatia per i baroni italiani”. Inizia così una lunga chiacchierata, che è anche un viaggio di letture e al contempo la narrazione di un percorso individuale in grado d’illuminare pregi e difetti del sistema Italia.
Nato a Dublino, Barry Mccrea si è laureato in letteratura francese e spagnola, svolgendo poi un dottorato negli States, a Princeton, in letteratura comparata. Viene presto chiamato dall’Università di Yale, dove lavora dal 2004 al 2012. Approda quindi a Roma nel 2013, dove gli viene assegnata una cattedra all’Università di Notre Dame. Capelli corti e occhi chiari: se li guardi bene puoi vederci attraverso una vita di letture.
«Quando mi sono trasferito negli Usa – racconta – pensavo che avrei studiato letteratura sud americana. Ma poi ho fatto una vacanza a Parigi e lì ho iniziato a leggere Joyce». Quello che si chiama un colpo di fulmine: la vita di Barry Mccrea non sarà più la stessa.
«Lo considero il culmine della letteratura – prosegue il professore – non pensavo si potessero raggiungere simili vette. Dopo averlo terminato ero convinto che non avrei mai più letto qualcosa di comparabile». Errore. Nella vita delle persone i colpi di scena si verificano come nei romanzi. E nella vita di un lettore, spesso le due cose coincidono: qualcuno suggerisce a Mccrea di leggere Marcel Proust. Per lui è l’inizio di un percorso di studi che lo porterà a sviscerare le relazioni che intercorrono fra letteratura e famiglia.
«Grazie a Proust ho capito che la famiglia non è il solo mezzo di continuità in grado di darci un senso dello scorrere del tempo, soprattutto del passato. Grazie a Joyce, invece, ho compreso il potere dell’incontro casuale, della coincidenza che apre una finestra su un mondo ignoto e a volte rischioso. Pensiamo, ad esempio, all’incontro fra due uomini nell’Ulisse».
Nel momento in cui parliamo sta per uscire il numero di TuttoMondo dedicato all’horror. La domanda nasce immediata e forse azzardata: esiste una correlazione fra questi mostri sacri della letteratura mondiale e il meno ambizioso romanzo gotico? «Certo – risponde Barry – ma gli elementi gotici vengono spessi rimaneggiati e alterati, e quindi diventa difficile rintracciarli in opere monumentali come la Recherche proustiana. Ma ci sono».
«Penso in particolare alla zia di Marcel, al modo in cui ce la presenta: la donna sola, chiusa nella stanza è un soggetto sicuramente gotico che richiama l’idea della strega. Ovviamente, in Proust ha una connotazione del tutto diversa». E poi, di nuovo, l’estraneo: «Una figura ricorrente nella letteratura moderna. Rappresenta il pericolo maggiore per le famiglie borghesi, perché minaccia l’identità del nucleo originario e mette a repentaglio il patrimonio, sia di sangue (la discendenza) che economico».
Barry trova anche un altro collegamento: quello con il ritorno del rimosso. Pezzi di vita sepolti che si credevano dimenticati tornano a gettare la loro ombra sul presente. Il collegamento immediato è con la celebre antologia kinghiana A volte ritornano. Proust e King, un accostamento da cortocircuito? Fra i due corre un abisso, stilistico e tematico.
Ma un punto di convergenza, forse, esiste: «La sensazione di memorie che ritornano è perturbante perché ciò che si ripresenta alla coscienza non è mai identico a come lo ricordavamo – chirisce il professore irlandese – assume nuove sembianze, è fonte di nuove inquietudini. Nell’era dei social, dove quasi nulla si perde, questo sentimento è un pericolo costante, perché quasi tutto può ripresentarsi e metterci nei guai. In Proust era centrale: lui raggiunge la conclusione che il suo vecchio io è morto».
Parliamo dell’Università di Notre Dame. Barry spiega che si tratta di una realtà giovane, aperta con lo scopo di creare una sede intellettuale e artistica in collaborazione con la società italiana, sebbene le iscrizioni siano riservate a studenti stranieri: «Cerchiamo di organizzare eventi aperti a tutti – puntualizza – e di collaborare con le Università italiane: abbiamo già lavorato con Pisa, La Sapienza e Roma Tre. Abbiamo soprattutto studenti americani, ai quali cerchiamo di spiegare la cultura italiana».
Il tempo fila che è una bellezza mentre ci confrontiamo sulle differenze fra Irlanda e Italia: «I vostri studenti hanno di solito un’alta preparazione e una cultura invidiabile, mediamente più alta che all’estero – sostiene Barry – ma vedo molta frustrazione e tanti, troppi talenti sprecati. In Italia manca un ricambio generazionale, tutti ne parlano, ma non si verifica mai. Mi piacerebbe che i professori ascoltassero di più e che i ragazzi si facessero sentire. Analogie col mio paese natale? Irlanda e Italia non valorizzano le cose buone di cui già dispongono: ad esempio la scuola».
Barry Mccrea è anche uno scrittore. Il suo libro d’esordio, The First Verse (disponibile solo in inglese) ha vinto nel 2006 il Ferro-Grumley prize per la fiction ed è stato recensito dal The Guardian. Ne parla in questo video, chiedendosi anche quale possa essere il futuro della letteratura in un modo dominato dai collegamenti istantanei.
Filippo Bernardeschi
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