LIVORNO – Uno dei momenti conclusivi del Fi-Pi-Li Horror Festival 2016 è stato l’incontro che si è tenuto nella giornata della Liberazione tra gli ospiti protagonisti di questa edizione della manifestazione. Sono saliti sul palco, oltre ai padroni di casa Francesco Mencacci ed Alessio Porquier, lo scrittore Roberto Riccardi ed i registi Lamberto Bava, Luigi Cozzi ed Antonio Manetti. L’argomento di discussione era la paura e i suoi meccanismi nel cinema e nella letteratura: quanto siamo affascinati dalla paura? L’autore o il regista si deve porre dei limiti? Come mai esiste la fascinazione per la paura e per il thriller?
È stato Roberto Riccardi il primo ospite invitato a parlare. Lui, autore di romanzi come Venga pure la fine e La firma del puparo, è anche un ufficiale dei Carabinieri. La sua visione quindi è completamente diversa da quella degli altri maestri presenti in sala che, in modi alterni, utilizzano l’infinito serbatoio del fantastico e della fiction per costruire le loro opere. «La paura è un’emozione forte – ha raccontato Riccardi – e nella nostra quotidianità, fatta da poche emozioni forti, la cerchiamo. È un’emozione che non ci sorprende visto che siamo abituati ad avere paura ogni giorno e ci dobbiamo convivere. Il coraggio non è il contrario della paura bensì è qualcosa che convive e spesso viene fuori per reazione». Inoltre ha ribadito il fatto personale che quando vengono presentati alcuni dei suoi libri e vengono scelti dei passi da leggere, sono proprio le parti più drammatiche e le più tese a essere lette in pubblico. In letteratura, l’aspetto noir ha preso il sopravvento perché «manca il finale consolatorio, perché la gente è abituata a storie terribili che non si concludono bene. Il noir è quello che ricalca meglio la vita ed è il genere in cui ricerca sempre il gusto contemporaneo».
Lamberto Bava, regista della duologia dei Demoni, di Macabro e di tanti altri cult-movies anni ’80, ha parlato di come lui non abbia mai esaminato in maniera scientifica il motivo di fare paura bensì si sia soffermato nella sua carriera a capire il modo migliore per fare paura attraverso la macchina da presa. Ha poi parlato di come la paura possa essere buona o cattiva e riferendosi alla prima tipologia ha raccontato che «quando uscì il romanzo L’Esorcista ero da solo in una casa di campagna e cominciai a leggere seduto su una poltrona al centro della stanza e dopo trenta pagine mi ritrovai nell’angolo della stanza con tutta la poltrona. Dentro di me avere paura, in quel caso, rappresentava la felicità. Io ho cercato di fare paura attraverso l’horror o il sovrannaturale, una paura indotta dai meccanismi del genere e non dalla realtà, infatti molti anni fa rifiutai di dirigere un progetto sul mostro di Firenze».
Luigi Cozzi, invece, è interessato ad analizzare il termine paura nelle sue sfaccettature perché «paura vuol dire tutto e vuol dire niente. La paura è quella che discende dal romanzo gotico, la paura si è evoluta come si è evoluta la società. Il Castello di Otranto che metteva angoscia nell’Ottocento, oggi fa quasi ridere perché i meccanismi della società sono talmente stravolti che il libro dal punto di vista della paura non funziona più; così come tanti film degli anni ’50 e ’60 che visti in quel contesto mettevano paura e oggi sembrano per bambini. La paura è contestuale al momento in cui il film o il libro viene fatto. E anche le tecniche sono cambiate: il cinema oggi deve essere velocissimo perché il pubblico principale è costituito da ragazzini abituati ad essere bombardati da immagini. I film che negli anni ’50 erano film d’atmosfera adesso non si possono più fare perché necessitano di ritmi particolari, ci ha provato Guillermo Del Toro ma non ha ricevuto un grande riscontro del pubblico. Mentre chi è riuscito a fare una buona fusione tra cinema moderno e cinema classico è James Wan».
Antonio Manetti, famoso insieme a Marco come membro dei Manetti Bros, ha parlato di come la loro carriera cinematografica (ma anche televisiva, si veda L’ispettore Coliandro) sia riuscita a percorrere strade alternative. Alessio Porquier ha chiesto infatti a Manetti come si possa riuscire in questi tempi a non accettare il compromesso. «Noi siamo coerenti, forse il fatto di essere in due ci aiuta – ha scherzato il regista romano – coerenza che è esistita nella storia del cinema di genere italiano, cosa che invece è raro trovare nel cinema giovane perché questi cineasti non riescono a replicare sul grande schermo le loro volontà. Io e Marco abbiamo anche sofferto il non-guadagnare per molto tempo; oggi questo forse è difficile da capire e quindi la maggior parte dei giovani registi si adatta e gira ogni cosa». Tornando alla domanda precedente, Manetti ha detto che noi «vogliamo giocare sulla paura della fantasia e non con la realtà anche perché sarebbe una strada facile da percorrere. Paura è anche il titolo di un nostro film, ma attualmente sono scontento di questa scelta che fu presa dalla distribuzione».
Una domanda interessante è stata posta ai presenti da Francesco Mencacci: c’è un limite al cinema nel fare paura? Una domanda che ha scatenato un frenetico dibattito in sala grazie anche alla verve di Federico Frusciante. «Il limite non c’è – ha detto Cozzi – vedo che c’è un crescendo continuo. Un film dell’orrore non può essere più fatto come all’inizio degli anni ’80. C’è una corsa sempre crescente a superare quello che offre il mondo». Mentre Lamberto Bava pensa che «uno è libero di fare paura e non è che oltre un certo limite un autore debba ripartire da zero». Antonio Manetti, premettendo che l’autore non debba cadere nell’autocensura, ritiene che superare il limite per «motivi gratuiti e stupidi non è conveniente per un regista. Penso che se qualcuno voglia fare un’opera di fiction solo per essere estremo e per farsi notare allora probabilmente ha poco da dire. Poi con questo non voglio dire che non adori opere estreme come ad esempio Martyrs, un film più estremo di quello è difficile da trovare, ma ben venga perché è un film che ha un senso in tutto e per tutto. Ci sono molti lavori, spesso fatti dai giovani filmakers, fatti solamente per farsi notare, fatti solo per essere gratuiti, ed il gratuito nel fantastico e nell’horror va a ricadere nel non credibile».
Quasi surreale l’ultimo intervento in sala di una signora di mezza età che si scaglia fortemente contro i registi di cinema horror perché corruttori delle giovani generazioni. Se per presentare il festival Alessio Porquier si è affidato al verso di Battiato «In quest’epoca di pazzi ci mancavano gli idioti dell’orrore», si può dire che scelta migliore non poteva farla per far capire ancora la distanza – penso congenita – di tanto pubblico italiano verso i generi respingenti, cupi, neri.
Tomas Ticciati
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