PISA – Lunedì 14 maggio una gremita sala grande del Teatro Verdi di Pisa ha accolto l’evento più atteso dell’odierna stagione de I Concerti della Normale, un concerto che ha riunito tre nomi di particolare rilievo: Beatrice Rana, Daniele Rustioni e l’Orchestra della Toscana.
Il M° Rustioni e l’ORT sono ormai un binomio più che collaudato e di cui abbiamo già avuto modo di parlare in passato, sia in occasione del concerto del gennaio 2017 (sempre nell’ambito del festival) sia per quanto riguarda l’ottima edizione discografica di alcuni lavori per orchestra di Giorgio Federico Ghedini. È proprio l’orchestra ad essere protagonista del primo punto del programma: Nostro mare. Cinque brevi scene per orchestra di Francesco Antonioni.
Il brano – composto nel 2015 e ispirato a una poesia di Erri De Luca – riguarda una delle più gravi tragedie di questo periodo storico. Non si tratta di musica “politicizzata” e, come sottolinea il compositore stesso nella presentazione del programma di sala, «non è compito della musica stabilire demarcazioni etniche, o dare giudizi su quel che è giusto o sbagliato»; l’intento di Antonioni è tanto semplice quanto chiaro: narrare una storia su quanto accade nel Mare Nostrum da diversi anni a questa parte, ponendo l’accento esclusivamente sull’aspetto umano della vicenda (aspetto di cui, si spera, ognuno riconoscerà la gravità, al di là di qualsiasi cosa si possa pensare sull’argomento migranti).
Pur essendo divisa in cinque movimenti, la composizione si dimostra nel suo insieme una struttura organica e fortemente coesa. Il linguaggio, estremamente ricco di rimandi alla musica del primo Novecento e in particolare a La Mer di Debussy, è stato splendidamente valorizzato dalla direzione asciutta ed efficace di Rustioni che si conferma una volta di più – se ancora ce ne fosse bisogno – un ottimo interprete della musica contemporanea e del Novecento.
Molto apprezzata anche la scelta del compositore di non rifugiarsi dietro a una muraglia di effetti orchestrali (anzi, questi sono stati impiegati in modo molto intelligente) ma di giocare su una spiccata musicalità narrativa e non didascalica, dal taglio nettamente impressionistico, inteso non come manierismo ma come intenzione programmatica: la musica di Antonioni – e questo aspetto è stato recepito ed esposto in modo eccellente dall’Orchestra della Toscana – non descrive momenti specifici, ma ne evoca le impressioni (appunto), non mostra allo spettatore le onde del Mediterraneo, piuttosto evoca la sensazione di trovarcisi in mezzo e lo fa con rara efficacia.
Tuttavia il punto più atteso del programma è sicuramente il secondo, che ha visto protagonista Beatrice Rana con il monumentale Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in re minore op. 15 di Johannes Brahms. Un Concerto su cui si staglia ancora netta l’ombra di Beethoven – il primo movimento, ad esempio, deve molto alla Nona sinfonia, di cui condivide la tonalità d’impianto – e che presenta notevoli problematiche interpretative.
Dopo le Variazioni Golberg è stato quasi spiazzante ascoltare il M° Rana cimentarsi in un repertorio tanto diverso; ma tanta era la differenza tra i due brani quanto la bravura, la raffinatezza e l’intelligenza della pianista rimangono a un livello impareggiabile.
Il connubio tra pianoforte, direzione e orchestra ha raggiunto vette ragguardevoli, non solo per il grande equilibrio tecnico ma soprattutto per l’intensità e per il pathos dell’interpretazione. Dall’orchestra che evocava il miraggio di terre ancora da plasmare che emergevano da un vuoto sconfinato, al pianoforte che rispondeva con voce ora melanconica ora imperiosa, l’intero Concerto si è svolto in un clima emotivamente molto denso.
La cosa che più sorprende dell’esecuzione di Beatrice Rana è non tanto la già citata bravura, quanto la grande maturità musicale dimostrata; certo, in una composizione di questo tipo il virtuosismo del solista ha grande rilevanza, ma non è questo l’aspetto che è stato privilegiato: più che dimostrare di essere in grado di spolverare la tastiera, Beatrice Rana ha dato prova inconfutabile del proprio valore musicale, andando a ricercare malinconia e sensualità, rimembranza e tenacia. Due aspetti in particolare sono meritevoli di menzione: l’ottima intuizione di esaltare la ricchezza armonica brahmsiana, ponendo l’accento su questi incatenamenti insoliti, misteriosi e vaganti (in particolare nel secondo movimento, dove le modulazioni sono tante e tali da quasi far smarrire la strada) e anche il fatto che si sia presa molte libertà interpretative nel senso che nei momenti in cui il pianoforte ha “diritto di parola” l’ha fatto parlare, eccome. Beatrice Rana ha avuto il fegato di prendersi i tempi che ci volevano per esporre la propria idea, non solo senza snaturare l’idea originale del compositore ma anzi valorizzandola al meglio, e lo stesso si può dire del preludio chiopiniano offerto come inaspettato quanto gradito bis.
A terminare il concerto una delle pagine sinfoniche più amate dal pubblico, la Sinfonia n. 6 in fa maggiore op. 68 di Ludwig van Beethoven detta Pastorale. In questo caso i riflettori erano interamente puntati su Rustioni e l’ORT, che hanno fornito un’interpretazione davvero interessante: poche smancerie e romanticherie, ma anzi tempi più vivi, colori più accesi. Beninteso, con questo non si intende dire che Rustioni ha diretto una Pastorale corriva, ma che ha preferito conferire maggiore importanza al carattere disteso e sereno di questa Sinfonia (carattere piuttosto raro nel catalogo di Beethoven), cavando il massimo effetto possibile dai peculiari timbri senza per questo rinunciare a una verve squisitamente beeethoveniana. A tal proposito si può citare il passo del terzo movimento in cui – all’a Tempo Allegro – entra il flauto sul graffiante disegno degli archi: molti direttori, per non coprire il flauto, impongono all’orchestra di calare d’intensità. Rusioni no: dritto come una freccia, ha proseguito con le dinamiche volute da Beethoven (cosa che, come si può immaginare, sortisce pure un effetto molto migliore).
Non sono mancati accenti più dolci e intimi, ma sempre dosati con l’accortezza ingentilire ma senza infiacchire il brano, come nel celebre movimento finale o nell’intimistica Scena al ruscello, che testimoniano non solo la grande intelligenza di Rustioni ma anche le duttili capacità dell’ORT.
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