Boyhood è appena uscito nelle sale cinematografiche italiane ed ha già fatto molto parlare di sè: acclamato dalla critica, presentato in anteprima al Sundance e premiato al festival di Berlino con l’orso d’argento per la miglior regia, potrebbe rivelarsi un valido candidato all’Oscar.
Richard Linklater torna dietro la macchina da presa dopo aver concluso la trilogia: Before sunrise (1994), Before sunset (2004) e Before Midnight (2013), nei quali tratta il consolidamento del legame amoroso tra Jesse (Julie Delpy) e Celine ( Ethan Hawke) nonostante il tormentoso passare degli anni, ben 18, che divora la giovinezza fisica degli attori ma non l’ amore dei protagonisti. Il regista texano torna in Boyhood a voler riflettere sullo scorrere del tempo e molto probabilmente l’aspetto più interessante ed affascinante del film è proprio il progetto.
Linklater vuole realizzare un film sull’infanzia, come suggerisce il titolo, vuole trattare la tematica della maturazione dall’infanzia all’età adulta riprendendone ogni passaggio con la macchina da presa. Decide di realizzare questo film in 12 anni, riprendendo tra i 4 e i 10 giorni l’anno. Il protagonista della storia è apparentemente Mason, interpretato da Ellar Coltrane, che vediamo crescere da bambino di 6 anni fino ai 18 anni e relazionarsi all’interno del suo “nido” familiare finchè non lo abbandonerà per andare al College e per vivere a pieno la sua individualità.
Gli ingredienti del romanzo di formazione made in U.S.A sono tutti presenti: da una madre fragile ed instabile, presenza-assenza, interpretata da un’eccezionale Patricia Arquette, ad un padre, di nuovo Ethan Hawke, apparentemente inaffidabile e lontano, che però è l’unico reale pedagogo genitoriale, da una sorella distante ma sarcastica, Lorelei Linklater, ai patrigni inquietanti e propensi a sfogare le loro frustrazioni nell’alcool, da accenni di episodi di bullismo a relazioni amorose con anticlimax finale. Eppure Mason è soltanto un pretesto perché la vera forza del film non è la storia, ma la caducità della vita. La 35 mm spia frammenti di vita di questi personaggi, non c è un susseguirsi causa –azione, ma soltanto un occhio indiscreto che non riesce a penetrare completamente nella loro interiorità ma li osserva dall’esterno, in modo voyeuristico. Il passaggio del tempo lo si apprende da qualche scelta didascalica : l’utilizzo della celebre “ Oops I didn t again!” di Britney Spears, gli accenni sulla campagna U.S.A di Obama per cui simpatizza il padre di Mason, i video di Lady Gaga. Eppure il compito più interessante di questo progetto è la mutazione fisica degli attori.
Patricia Arquette in un’intervista a Vanity Fair si commuove di come riguardando il film, si è vista invecchiare e se nei personaggi maturi, il passaggio del tempo si nota da qualche ruga malinconica e dai capelli brizzolati, in Mason e Samantha è una vera e propria esplosione condensata in 2 ore e 45 minuti. Fratello e sorella non solo induriscono i tratti fisiognomici ma mutano anche il loro corpo a secondo della loro personalità: Samantha tingengosi i capelli di rosso, Mason con tagli di capelli “alternativi”, piercing al lobo e smalto alle unghie. Vediamo i ragazzi mutare da bambini incompresi a comuni adolescenti che potrebbero essere i nostri vicini di casa.
La famiglia di Mason rappresenta effettivamente la classica famiglia media texana, qui forse pecca Linklater eccedendo in una rappresentazione troppo stereotipata della cultura di massa made in U.S.A. Mentre Mason sembrerebbe distaccarsi da tale mondo con ribellione, in realtà lo assorbe in frasi fatte e abbastanza scontate come nella conversazione su facebook con la fidanzata, i joint fumati non troppo di nascosto e l’amore per l’arte, diventando un qualsiasi adolescente americano che lavora nel doposcuola nel retro di un qualsiasi esercizio di ristorazione.
Il tempo però non è rappresentato come una minaccia, una forza distruttrice, salvo qualche sentimento nostalgico nella madre instabile ( “ Credevo di avere più tempo.” ), ma come un flusso energetico propositivo e fiducioso. In fondo non siamo noi a cogliere l’attimo, ma “ è l’attimo che coglie noi.”
Francesca Lampredi
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