A cinque anni e una manciata di giorni dal suo ultimo respiro, è lecito chiedersi che cosa sia rimasto di Lucio Dalla. Canzoni che passano in radio, dischi e cassette sparsi sulle bancarelle, piogge di note sulle strade bolognesi, che di tanto in tanto accompagnano i passanti in mondi lontanissimi, irraggiungibili persino per il costante brusio quotidiano della città.
Ma soprattutto sono rimaste storie.
A 74 anni esatti dalla data di nascita più famosa d’Italia, troviamo nelle sale un docufilm che aveva inizialmente incontrato il pubblico come spettacolo teatrale.
Dopo averlo visto, non abbiamo nessun dubbio: Caro Lucio ti scrivo è l’omaggio migliore che si potesse fare a Lucio Dalla. Cosa si può dire di più della sua vita? Lui stesso aveva scelto di mettere davanti a ogni cosa la sua arte. Ed ecco che a salutare Lucio e ad augurargli un buon compleanno ci hanno pensato loro: i suoi personaggi. Anna e Marco, Futura, Meri Luis, Maria e altri ancora. Il regista Riccardo Marchesini e Cristiano Governa – autore della storia e co-sceneggiatore del film assieme al primo – si sono intrufolati dentro sette canzoni di Lucio Dalla, hanno aspettato con pazienza quei momenti di vuoto tipici dei secondi finali, in cui le immagini sfumano, e hanno deciso di «cucire il tempo» e «riportarli di qua». Per farli rivivere hanno scelto sette tracce estremamente cinematografiche, ma senza limitarsi a riprodurle. Si tratta di una reinterpretazione magnificamente eseguita, dove lo spazio a disposizione dello spettatore si dilata, fino a renderlo capace di riconoscersi in quei luoghi, in quelle storie, o anche in un semplice gesto quotidiano di un personaggio secondario.
Lo stratagemma è chiaro fin da subito. Egle Petazzoni (interpretata da Federica Fabiani) è la postina che si occupa da vent’anni del centro storico di Bologna. Ogni mattina consegna la posta ai vari indirizzi a bordo della sua bicicletta. Tra questi c’è anche il civico 15 di via D’Azeglio. Dove abita il residente che al suo primo giorno di lavoro, da diciannovenne impacciata, non riusciva a trovare per recapitargli le sue lettere. Fino a quando non lo incrocia sull’uscio, con la canottiera e un pallone da calcio sotto braccio, che, divertito, le indica il campanello con lo pseudonimo “comm. Domenico Sputo”. Da quel giorno sarà sempre Egle a consegnare la posta a Lucio Dalla. Anche dopo la sua scomparsa. Anzi – ed ecco l’idea –, presa dalla curiosità (e dalla nostalgia) decide di fare una cosa proibita: aprire le lettere destinate al cantante per scoprire chi ancora oggi continua a rivolgersi a lui. Scoprirà un mondo. Dei mondi. Sono proprio i personaggi di Dalla che gli raccontano com’è andata a finire “dopo” la canzone. E lo fanno attraverso le lettere, di cui è quasi lapalissiano raccontare il fascino e lo straordinario potere comunicativo.
La qualità dell’intreccio tra realtà e fantasia, fondamentale in un docufilm, raggiunge per noi il suo massimo in Futura. Lucio Dalla scrisse questa canzone a Berlino, mentre osservava il Muro:
«Il testo di Futura nacque come una sceneggiatura, poi divenuta canzone. La scrissi una volta che andai a Berlino. Non avevo mai visto il Muro e mi feci portare da un taxi al Check Point Charlie, punto di passaggio tra Berlino Est e Berlino Ovest. Chiesi al tassista di aspettare qualche minuto. Mi sedetti su una panchina e mi accesi una sigaretta. Poco dopo si fermò un altro taxi. Ne discese Phil Collins, che si sedette sulla panchina accanto alla mia e anche lui si mise a fumare una sigaretta. In quei giorni a Berlino c’era un concerto dei Genesis, che erano un mio mito. Tanto che mi venne la tentazione di avvicinarmi a Collins per conoscerlo, per dirgli che anch’io ero un musicista. Ma non volli spezzare la magia di quel momento. Rimanemmo mezz’ora in silenzio, ognuno per gli affari suoi. In quella mezz’ora scrissi il testo di Futura, la storia di questi due amanti, uno di Berlino Est, l’altro di Berlino Ovest che progettano di fare una figlia che si chiamerà Futura».
La Futura del nostro film è stata invece abbandonata davanti a una caserma dei carabinieri di Bologna da una coppia che non lascia altre indicazioni se non un foglio con su scritto: «Lei è Futura». E via con i fotogrammi della sua vita, tra le stoffe e i vestiti dei suoi genitori adottivi, proprietari di una sartoria alle porte di Bologna, e i libri. La laurea in lettere e il trasferimento a Berlino col suo compagno. E chissà – chiede a Lucio – se i suoi genitori, «quelli della canzone», sono da qualche parte là con lui.
C’è molta Bologna nel film, com’è naturale che sia. E c’è in tutte le sue vesti, presenti e passate. Quanto è suggestiva l’immagine-provocazione dei preti che un giorno potranno sposarsi ma «soltanto a una certa età»? Ebbene, il protagonista de L’anno che verrà è proprio un prete che si è innamorato di una donna: «L’ho conosciuta qualche mese fa e mi ha cambiato la vita. Lo so che tutti gli amori, in qualche modo, te la cambiano. Il fatto è che lei per me è la prima; non avevo mai avuto una donna in trentasette anni di vita.
Un po’ perché non l’avevo mai cercata, un altro po’ perché un sacerdote, al contrario di quanto avevi promesso, non può ancora sposarsi. Forse non rientro nella tua categoria, ricordi? Quei preti che “potranno sposarsi ma soltanto a una certa età”.
Capisci cosa intendo Lucio? Per la gente io sono uno che si è messo in un guaio, ed ecco perché ti scrivo. Tu sai che solo uno nei guai è vicino, vicinissimo alla vita».
È la lettera che inaugura il film e che Egle apre delicatamente sfruttando il vapore dell’acqua che bolle sui fornelli.
Spazio anche alla Bologna notturna degli anni Settanta, dove il giovane protagonista di un altro episodio sente salire dai portici le note di Com’è profondo il mare fischiate dal padre che torna dal lavoro. E per tutta risposta, la madre diffonde fuori dalla finestra l’odore del caffè. Un incontro perfetto, come perfetto è il contrasto tra la tranquillità di quella famiglia e le crude immagini della violenza di quegli anni.
Tornando nella Bologna dei giorni nostri, ecco Meri Luis e il tassista, che per caso la sta trasportando e sempre per caso scopre la sua identità. Due personaggi della stessa canzone nello stesso posto. Un’epifania. Poi l’abbraccio. E la ricerca appassionata degli altri personaggi, fino alla foto – pardon, il selfie – al tavolo della celebre trattoria da Vito, come a far incontrare il presente col passato.
Ma non c’è solo Bologna in Caro Lucio ti scrivo.
Dalla Milano “finanziarizzata”, portata all’estremo, dove «esistono le cose che non vedi» e per avere successo «devi essere bello». Fino a Comacchio, luogo immaginato per La casa in riva al mare, forse la storia più triste tra quelle raccontate.
«Ho alzato la testa, come se sapessi dove guardare e dall’altra parte del mare l’ho visto – scrive Maria, la protagonista -. Era lui. Dietro le sbarre di una cella due mani stringevano alle sbarre. Dietro, nel buio, c’erano i suoi occhi; è così che cominciata. L’inizio della nostra storia lo conosci. Se ti scrivo è per raccontarti la fine». Che è struggente. Dieci anni di nobile attesa, sfumati. Ilario ha scontato la sua pena e se n’è andato. Ma non da Maria.
Per Anna e Marco il discorso è differente. È forse la canzone più cinematografica di Lucio Dalla. La bravura dei due autori è stata quella di non abbandonare il solco dell’interpretazione, senza quindi cedere alla semplice messa in scena. Ogni ascoltatore si immagina Anna e Marco in un certo modo. Ma cosa è successo subito dopo la chiusura del bar di via delle Fragole? Loro hanno scelto il quartiere bolognese della Cirenaica, quello della “gucciniana” via Paolo Fabbri. Marco, silenzioso e goffamente teso, prende Anna non per mano, ma per il polso. Il silenzio tra loro dice più di un trattato di mille pagine. Passeggiano per Bologna, la luna è davvero «una palla» e il cielo «un biliardo». Marco la porta a casa sua, nel cuore della sua «poca vita» che è «sempre quella» e le fa il regalo più grande che le potesse fare: si lascia guardare.
Infine, no. Nessuna mitizzazione del passato, nessuna astrazione, nessun ego molesto a turbare i momenti di silenzio (peraltro frequenti) del film (gli attori più famosi sono rimasti in disparte e hanno prestato al progetto solamente la loro voce: Ambra Angiolini, Alessandro Benvenuti, Piera Degli Espositi, Neri Marcorè, Ottavia Piccolo, Andrea Roncato e Grazia Verasani).
Si chiude sul presente, cogliendone forse l’unica interpretazione universalmente riconosciuta: la vertiginosa indecisione. Si chiude sul vibrante «chissà…» preannunciato da Futura. Lo sentiamo risuonare tra le strade strette della nostra città mentre continuiamo a non fermarci.
Lo aveva anticipato all’inizio il sacerdote de L’anno che verrà: «Perché più siamo in mezzo a tanta gente più ci sentiamo soli? Abbiamo tutto a portata di mano: si è perso il gusto di sentire la mancanza di qualcosa o di qualcuno».
Caro Lucio ti scrivo si chiude soprattutto sul sorriso della figlia di Anna e Marco (interpretata da Selene Demaria). Ha 23 anni, passa da un lavoro all’altro, ha un “filarino” con un ragazzo e resta un mistero per il padre, che la prende con filosofia e ironia. È figlia del suo tempo, che poi è il nostro. Racchiude in sé la speranza tipica dell’essere giovani e la profonda inquietudine per l’impossibilità di pensare a un futuro tranquillo. Lei sceglie la speranza, nonostante tutto.
Forse il nostro compito è non far appassire quel sorriso.
Auguri, Lucio.
- “Repubblica Popolare Molinese”. Cultura e persone tra passato e futuro - 19 Settembre 2017
- Controcanto Pisano. La musica, l’anarchia, il futuro - 22 Agosto 2017
- Alfonso De Pietro. L’attualità, fra memoria e canzone di protesta - 21 Agosto 2017