«Caterina, questa tua canzone la vorrei veder volare», cantava Francesco De Gregori nel 1982. Volare non lo sapremo mai. Ma guardare, quello sì, è consentito. E presto ne avremo l’occasione. Nel 2017 ricorrono i dieci anni dalla scomparsa di Caterina Bueno, cantante ed etnomusicologa toscana che ha riscoperto (e registrato) un’intera tradizione di cultura popolare tramandata oralmente. E lo scorso 8 marzo, giornata internazionale della donna, è stato lanciato il progetto Caterina. Si tratta di «un viaggio alle radici del folk italiano attraverso le immagini e le parole della sua più grande interprete».
Da Maremma amara a La Leggera, Caterina ha portato alla luce musica e parole altrimenti destinate all’oblìo, restituendo alla cultura popolare e contadina la dignità che merita.
Ne abbiamo parlato con Francesco Corsi, che del documentario firmerà la regia.
Francesco, prima di tutto presentati brevemente. Chi sei, cosa fai, di dove sei…
«Sono nato a Siena, ho vissuto per anni a Colle di Val d’Elsa (con qualche breve intervallo in Spagna) e adesso vivo nella campagna vicino a Firenze. Sono uno dei fondatori di Kiné, una cooperativa che è, ad un tempo, casa di produzione e laboratorio di comunicazione audiovisiva. È la stessa realtà con cui adesso portiamo avanti il progetto Caterina, il documentario su Caterina Bueno di cui abbiamo appena inaugurato il processo di realizzazione».
Cosa ti ha dato il “la” per iniziare questo progetto?
«Ho sempre visto Caterina Bueno come una figura estremamente interessante ed emblematica. Mi affascinava soprattutto il suo impegno nel tenere vivo un così vasto repertorio di musica popolare; più tardi mi ha impressionato scoprire quale e quanto lavoro ci fosse dietro a quelle canzoni, quanto fosse stato accurato e complesso lo sforzo di ricerca e recupero. Questi due aspetti, insieme ad un interesse personale per il tema della memoria (e soprattutto del rapporto di una comunità con la propria memoria) credo siano stati la leva principale che ha innescato il meccanismo nella mia testa».
Che differenza c’è tra questo documentario e Caterina Raccattacanzoni del 1967?
«Sono film profondamente diversi, anche se in qualche modo si parlano (o meglio: si parleranno) da vicino. Caterina Raccattacanzoni è quasi un racconto “on the road”, in cui una piccola troupe seguiva Caterina Bueno nei luoghi che lei aveva già visitato nel corso della sua attività di ricerca. Luoghi che si stavano spopolando, sotto i colpi del boom economico e che erano destinati a trasformazioni radicali di lì a poco tempo. Il nostro progetto arriva esattamente cinquant’anni dopo, provando a fare un viaggio parallelo, un dialogo continuo, anche per immagini, tra passato e presente, che serva a delineare la figura complessa di Caterina e la sua attività di ricercatrice e donna di spettacolo, attraverso i luoghi e i volti che l’hanno accompagnata nel corso della sua vita. In questo, le situazioni immortalate in Caterina Raccattacanzoni svolgeranno un ruolo narrativo di assoluta importanza».
Entriamo nel dettaglio. Come sarà composto il documentario?
«La cosa più certa che posso dire rispetto al processo creativo, visto che la scrittura subirà necessariamente modifiche in corso d’opera, è che non sto pensando a Caterina come a un documentario puramente biografico. La complessità della figura di Caterina non è riducibile, secondo me, a una modalità di racconto lineare, a meno di non volerne banalizzare i tratti. Sarà più un ritratto per frammenti, e anche intersezioni, in cui la voce, le canzoni e le immagini di Caterina – recuperate in vari archivi – avranno più centralità possibile. Ci saranno poi testimonianze, apparizioni e interviste di personaggi del mondo della cultura che le sono stati legati nel corso del suo percorso artistico, ma serviranno soprattutto a fornire un punto di vista esterno sul contesto in cui Caterina si muoveva».
Avete iniziative in programma di qui all’uscita? Ad esempio per la ricorrenza dei dieci anni dalla scomparsa.
«Siamo nel pieno dell’organizzazione del calendario! Stiamo preparando diverse iniziative di supporto al documentario, soprattutto a partire dalla primavera, quando daremo il via alla campagna di crowdfunding. La prima occasione di incontro in realtà avverrà a breve: presenteremo il progetto in luogo speciale per la canzone popolare, alla Festa per i 50 anni della Lega della Cultura di Piadena il 25 marzo. Ne seguiranno altre in Toscana, naturalmente. Vi invito a seguire gli aggiornamenti sulla pagina Facebook, presto ci saranno novità…».
Quali artisti avete coinvolto, se si può rivelare?
«Abbiamo contattato molti dei collaboratori di Caterina, ma entriamo adesso nel vivo della produzione, per cui si tratta di un fronte in continua evoluzione. Abbiamo giocato d’anticipo con un paio d’interviste: Giovanna Marini e Fausto Amodei, due nomi storici della canzone popolare, due giganti dalle grande sensibilità umana e musicale».
Cos’ha di speciale Caterina? Francesco De Gregori ha provato a raccontarcelo in una splendida canzone. Qual è la tua opinione?
«Caterina è stata, in sé, una figura assolutamente originale e forse è proprio questa impossibilità di sintetizzarla in pochi tratti ciò che la rende un personaggio insieme complesso e speciale. Basti pensare alle sue origini: figlia di un ambiente culturalmente ricercato e cosmopolita, questa ragazza senza radici, quasi apolide, nata a Fiesole da padre spagnolo e madre svizzera, a un certo punto finisce per incarnare la stessa memoria della cultura popolare della sua terra di adozione. Un’attività di ricerca (e poi di spettacolo) che ha sempre portato avanti con grande serietà, ma anche con una visione chiara e assolutamente coerente della propria “missione” culturale».
Cosa rappresenta Caterina Bueno per te?
«Come ti dicevo, molto di quel per me Caterina ha rappresentato e rappresenta sta dentro alle motivazioni che mi hanno spinto ha intraprendere questo progetto di documentario. Aggiungo anzi una cosa: in questo momento l’aspetto più difficile, ma anche il più necessario visto che sono nel bel mezzo del processo creativo del film, è quello di riguadagnare la giusta distanza con l’oggetto del racconto, per valutare tutti i possibili e più efficaci sbocchi narrativi. Da questo punto di vista, direi dunque che Caterina Bueno è anche una tensione continua tra il suo ritratto ufficiale e pubblico e una interpretazione, per forza personale e parziale, che sto tentando di costruire con gli strumenti del documentario».
Caterina, come detto, è anche memoria. Che significato ha esercitarla oggi (e quindi ricordare Caterina), nel regno della “società liquida”, dove mancano punti di riferimento e si dimentica in fretta?
«Credo che, in qualche maniera, abbia proprio una funzione di resistenza al farsi trascinare dalla corrente dell’omologazione. E a maggior ragione penso che questo sia vero se parliamo di una figura come Caterina. Non credo per nulla nel valore nostalgico o esclusivamente rievocativo della memoria: mi interessa invece ragionare di memoria in termini di esercizio critico e, spesso, conflittuale con il tempo presente. Il linguaggio del documentario fornisce, da questo punto di vista, ottimi strumenti per aprire alla riflessione critica tra presente e passato, purché appunto questo rapporto non venga banalizzato o reso in termini meramente didascalici. Uno dei più grandi registi viventi, il cileno Patricio Guzmán, ha detto più o meno: “Un paese senza documentari è come una famiglia senza album di fotografie”. Ecco, il perché si facciano documentari che interrogano la memoria forse sta tutto racchiuso in questa metafora precisa».
Prendo in prestito una citazione di Antonio Tabucchi su Caterina e la trasformo nell’ultima domanda: «Vale la pena continuare, o tutto ci invita al silenzio?»
«La memoria, se non esercitata, tende di per sé ad essere erosa. Per cui sì, direi che lo scivolamento nel silenzio (nel non-racconto) è un rischio sempre presente, oggi forse più che mai. È precisamente per questo che vale la pena continuare a raccontare».
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