Stati Uniti, pochi anni prima della guerra civile americana. Solomon Northup, un nero nato libero, viene rapito e venduto come schiavo. Misurandosi con la più feroce crudeltà, ma anche con gesti di inaspettata gentilezza, egli si sforza di sopravvivere senza perdere la dignità. Dopo dodici anni l’incontro con un abolizionista canadese gli permetterà di tornare libero.
Il film è ammaliante e scomodo, su quest’ultimo aggettivo bisogna aprire una parentesi. Le precedenti pellicole di Steve McQueen, Hunger e Shame, non si limitavano a mostrare una realtà dura e cruda. Esse nascevano con la necessità di scuotere lo spettatore, di far male. Lo stile era iperrealista e visionario (a tal proposito ricordiamo che McQueen è stato un videoartista). In 12 anni schiavo, invece, non si raggiungono gli stessi picchi di crudeltà. Questo lungometraggio nasce con l’intento di raggiungere un pubblico più ampio e le scelte registiche sono più morbide.
Il film racconta l’abisso del male e trasmette in modo limpido e commovente la fede degli schiavi neri e il valore della speranza.
12 anni schiavo si pone nella tradizione più classica del cinema civile: nel racconto esemplare di una singola storia si rispecchia il Paese intero, con i suoi errori, la sua violenza ma anche i suoi eroi.
Giancarlo Fina
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