Tra il 16 e il 23 agosto 1824 Giacomo Leopardi scriveva una delle sue più belle (e singolari) poesie. A dispetto di quel che si potrebbe supporre, questo componimento non fa parte di quella grande raccolta che sono i Canti: sorprendentemente, la poesia contenuta in una delle Operette morali, per la precisione nel Dialogo di Feredico Ruysch e delle sue mummie. L’operetta, di tipo dialogico, è vergata in stile medio e con tratti grotteschi; tuttavia è inconsuetamente introdotta da un testo poetico, dove il poeta si esprime con quella voce nobile e alta caratterizzante la sua maggiore produzione poetica, il Coro di morti nello studio di Federico Ruysch.
Leopardi ambienta l’operetta allo scoccare di un ignoto «anno matematico» in cui tutti i morti, «in ogni cimitero, in ogni sepolcro, giù nel fondo del mare, sotto la neve o la rena, a cielo aperto, e in qualunque luogo si trovano», intonano questo canto. Lo spunto di Frederik Ruysch – botanico e anatomista olandese vissuto tra il 1638 e il 1731 e divenuto celebre per una particolare tecnica di preservazione anatomica dei cadaveri, vale a dire uno speciale processo di imbalsamazione – costituiva il pretesto per un’operetta che trattasse alcuni temi già analizzati altrove da Leopardi ma comunque a lui cari: la morte, il dolore (tanto fisico quanto spirituale), l’ignoto aldilà.
116 anni dopo, più precisamente tra il 1940 e il 1941, il compositore italiano Goffredo Petrassi decise di mettere in musica l’intero testo della poesia leopardiana: il risultato fu il Coro di morti. Madrigale drammatico per voci maschili, tre pianoforti, ottoni, contrabbassi e percussione. La genesi della composizione è fortemente intrecciata al particolare momento storico e alla biografia dell’autore. Petrassi iniziò a scrivere il suo Coro di morti il 20 giugno 1940: dieci giorni prima l’Italia era entrata nel mattatoio della Seconda Guerra Mondiale. La forte impressione che l’evento produsse sul compositore è rintracciabile nella dedica di questo Madrigale drammatico; quella originale riportava: «A me stesso, tuttora vivente», in seguito fu ridotta alla definitiva «a G. P.». Un’ulteriore testimonianza è fornita dallo stesso Petrassi: «Nessun testo, come questa “canzonetta” leopardiana che fa da prologo al Dialogo di Federico Ruysch e le sue mummie nelle Operette morali, mi parve più adatto ad esprimere ciò che provai il 10 giugno 1940. Il testo, quindi, ha una importanza determinante; condiziona la sostanza musicale e la struttura della composizione, oltre che la particolare aggregazione sonora (tre pianoforti, ottoni, contrabbassi e percussione). Il coro è formato da sole voci maschili, sembrandomi il timbro femminile non pertinente, una intrusione, all’ambiente sonoro generale».
Questa concisa spiegazione del compositore ci è utile per almeno tre buoni motivi: illustra la necessarietà del testo (ovvero il suo indissolubile legame colla materia musicale e la sua centralità), motiva la peculiarità della struttura e della strumentazione del brano e contestualmente suggerisce la motivazione dell’evidente innovazione stilistica. Il Coro di morti, difatti, segna una nuova stagione dello stile petrassiano. Di stirpe schiettamente romana (infatti nacque nella vicina Zagarolo), Petrassi incluse ben presto questa “romanità” nel proprio stile, che negli anni ’30 era così fortemente legato al retaggio del barocco romano, del clima culturale della Controriforma e dei grandi polifonisti romani. Questo percorso lo portò alla composizione del primo lavoro che lo portò all’attenzione della scena internazionale, la Partita per orchestra del 1932, e nel medesimo solco nacquero il Primo concerto per orchestra (1933-1934) e il Salmo IX (1936). In questi lavori è presente, evidentissima, anche l’influenza di Igor Stravinskij e dell’amico Alfredo Casella. Alla fine degli Anni Trenta, tuttavia, la geometria di Petrassi iniziò a spostare il proprio baricentro verso altre posizioni. La prima opera in cui si ravvisa fortemente questa ricerca di nuove vie espressive è il monumentale Magnificat del 1939-1940. Certo, qui è ancora presente una certa floridezza barocca, ma ogni singola cellula musicale è da inquadrarsi nel più ampio contesto della funzione drammatica dell’opera, tale da sprigionare tutta la tensione tragica del lavoro. Queste istanze vengono riversate anche nel Coro di morti, dove raggiungono sommi vertici di equilibrio e perfezione artistica.
Come già spiegato precedentemente, il contesto bellico spinse Petrassi a una riflessione grave e intensa, che poi trovò affinità nel testo leopardiano. È lo stesso testo, come sottolineato dal compositore stesso, a dettare le necessità dell’organico strumentale e vocale: violini, viole e violoncelli vengono eliminati e sostituiti da tre spigolosi pianoforti (dell’insieme degli archi permangono solo i contrabbassi), i legni vengono totalmente aboliti, l’unica sezione strumentale di nutrite dimensioni è quella degli ottoni. A completare il curioso ensemble resta la sezione delle percussioni e, ovviamente, il coro composto esclusivamente da voci maschili. Nell’evocare la suggestione dell’organico scelto da Petrassi sono eccezionali le parole del critico Mario Bortolotto: «Prima di tutto, a colpire l’ascoltatore sarà la timbrica, che lascia ogni fulgenza barocca, abolisce violini, viole, celli e legni, e si mortifica, ma quanto avvantaggiandosene, nell’opaca carnosità di una densa sezione d’ottoni, e una sezione percussiva cui vanno assegnati anche tre pianoforti e i contrabbassi».
La cosa che colpisce in primo luogo del Coro di morti è la sua formidabile architettura musicale. Ebbene, questa architettura è modellata direttamente sulle tre macro-sequenze in cui si può suddividere il testo leopardiano e ognuna di queste macro-sequenze possiede una propria caratterizzazione tematica: la prima sequenza (vv. 1-13) presenta il tema principale del componimento, vale a dire della morte che disfa ogni cosa, dopodiché, nella seconda sequenza (vv. 14-26 metà) si assiste a una brusca frattura, in cui si assiste alla contrapposizione dei vivi ai morti. La terza e ultima sequenza (vv. 26 metà-32) presenta la descrizione della morte da parte dei defunti. Su questo scheletro, come già anticipato, Petrassi crea l’architettura del proprio lavoro: dopo undici battute d’introduzione, entra il coro che espone per intero la prima macro-sequenza del poema. A ciò segue un lungo iato, un primo intermezzo strumentale (Scherzo), interrotto dalla seconda macro-sequenza cantata dal coro; dopodiché torna per un’ultima volta lo Scherzo (secondo intermezzo strumentale), seguito dall’ultima macro-sequenza corale e, infine, dalla coda. È interessante anche notare che la prima e la terza macro-sequenza (rispettivamente sezione A e sezione C) sono eguali e speculari: il Coro inizia con l’introduzione strumentale e prosegue con la sezione A (composta da episodio corale-episodio strumentale-episodio corale); la terza ed ultima parte, invece, principia colla sezione C (composta da episodio corale-episodio strumentale-episodio corale) e si conclude con una coda strumentale. Risulta quindi evidente che l’intero Coro di morti è costruito in modo simmetrico, con la seconda macro-sequenza (sezione B) che riveste la funzione dell’asse di simmetria, e infatti è preceduta e seguita da un intermezzo strumentale.
Se, inoltre, andiamo a quantificare a livello di numero di battute tutte le singole sezioni dell’opera, si potrà notare come la simmetria non è presente solo a livello organizzativo ma anche strutturale: introduzione (11 batt.), sezione A (61 batt.), I intermezzo strumentale (52 batt.), sezione B (34 misure), II intermezzo strumentale (46 batt.), sezione A (62 batt.), introduzione (11 batt.).
Nel lugubre attacco dell’introduzione, Petrassi ci propone una forte anticipazione del colore della composizione: una tinta grigia e uniforme, di grande cupezza, immediatamente tragica. Queste suggestioni cromatiche provengono innanzitutto al pianoforte del registro più grave e si procede per un processo di accumulazione di formulazioni ritmiche che principia dal III pianoforte fino ad approdare al I. Nel corso di questa accumulazione viene presentato quello che sarà sostanzialmente il motore tematico e ritmico dell’intera composizione, ripresentato ciclicamente in modo di elementare canone o con alcune varianti. Questa climax si conclude con la tremenda entrata degli ottoni, dopodiché gli strumenti scemano rapidamente ed emerge – quasi dal vuoto – il coro. La scrittura che Petrassi affida al coro è estremamente interessante: diversissima da quella dei già citati Salmo IX e Magnificat, si tratta di una scrittura connotata da particolare semplicità, spesso improntata all’omoritmia e – volendo fornire l’impressione di un canto arcaico ed eterno – ricca di quarte e quinte, sovente anche parallele. Il significato di una tale semplicità di scrittura è da ricercarsi in due motivazioni strettamente pratiche: da una parte per creare quella tinta e quell’impasto così particolare che caratterizza il Coro di morti, ma soprattutto per consentire al canto la maggiore aderenza possibile al testo. L’inizio è di una disarmante semplicità: coro a due voce, attacco in ottava di un (ipotetico) la minore, ottava che si restringe in una quinta e che dà vita a una singolare conduzione delle parti generando tre quinte parallele. Felicissima l’intuizione di aprire alle quattro voci sulla parola «morte» e con un’armonia estremamente dissonante (col forte urto do-reb) e successivamente tornare ad agglomerati di quarte e quinte. L’omoritmia, l’invenzione contrappuntistica, le quarte e le quinte parallele, sono tutti elementi desunti dalle composizioni rinascimentali e barocche, ma Petrassi non se ne avvale per creare dei facsimili “alla maniera di”; divengono materiali plastici che egli manipola per giungere a nuovi risultati, piegandoli insomma alle istanze della nuova musica.
Analoghe considerazioni possono essere compiute sui due Scherzi, in particolar modo sul primo, che consiste sostanzialmente in un fugato di stampo barocco. Dopo la patina di uniforme oscurità della prima sezione del Coro, il carattere burlesco, quasi derisorio, dell’intermezzo strumentale giunge assolutamente inaspettato. Nel suo saggio Poetiche del sublime: il Coro di morti, dalle Operette morali a Goffredo Petrassi, lo studioso Giovanni Vito Distefano compie un grossolano errore di valutazione sostenendo che «la trasposizione petrassiana soltanto apparentemente è la fedele messa in scena di una partitura drammatica predisposta nel testo leopardiano. Essa invece opera in effetti una sostanziale riduzione della complessità del testo di partenza, prendendo la via di un drastico restringimento delle opzioni tonali e stilistiche. Nell’adattamento, intanto, manca del tutto la giustapposizione di sublime-serio e dialogico-farsesco che struttura l’operetta». Nell’operetta di Leopardi l’elemento farsesco era presente nell’episodio dialogico; avendo Petrassi parcellizzato il testo originale, decidendo di musicare solo il componimento poetico, è naturale che non potesse ficcare in bocca al coro accenti comici o grotteschi: la – mirabile – soluzione dell’inghippo è proprio l’inserimento dei due lunghi episodi strumentali. Inoltre, come sostiene il M° Alessandro Solbiati, la chiave interpretativa di questi due Scherzi va ricercata direttamente nel testo del Coro di morti:
Vivemmo: e qual di paurosa larva,
E di sudato sogno,
A lattante fanciullo erra nell’alma
Confusa ricordanza:
Tal memoria n’avanza
Del viver nostro: ma da tema è lunge
Il rimembrar.
La rimembranza è, appunto, la lente attraverso cui bisogna esaminare i due episodi strumentali: il primo intermezzo è, concreto, materiale, un fugato vero e proprio, invece il secondo è solo un’eco di questo, una vaga memoria, lacerata, distorta. C’è poi da considerare una curiosa coincidenza: per nome e per carattere questi due episodi richiamano fortemente il Prologo del Mefistofele di Arrigo Boito, in cui il protagonista eponimo fa il suo ingresso proprio su un pungente Scherzo strumentale, che fa da stridente contrasto colla ieratica solennità del coro precedente (Ave, Signor). La trasposizione di Goffredo Petrassi, quindi, non va a “semplificare” l’intima complessità del sublime leopardiano, ma lo interpreta con grande sottigliezza d’acume senza tuttavia svuotarlo del proprio potere. Anzi, Petrassi punta proprio sulla grande forza derivante dall’universalità delle tematiche trattate da Leopardi, andando a cavarle da «un testo che di quella angoscia fosse una sorta di sublimazione, che non si riferisse ad un evento particolare del momento, ma che lo trascendesse, e perciò si ponesse — in un certo senso — gli stessi eterni interrogativi, sempre presenti nell’uomo: che siamo, dove andiamo, da dove veniamo?».
Dopo il secondo intermezzo strumentale, in ossequio all’architettura simmetrica della composizione, Petrassi torna pazientemente a ricompattare il materiale musicale scardinato dall’esposizione della sezione centrale. Se le sezioni A e B iniziavano all’ottava e in un (ipotetico) la minore, la sezione C si apre sulla “dominante” della tonalità ma qui bassi e tenori si muovono per moto contrario, continuando ad alimentare la sensazione di disfacimento, di distorsione della rimembranza: difatti la sezione C si apre con la domanda «Che fummo?». Questa domanda, tra l’altro, è anche l’unico elemento testuale di tutta la composizione che Petrassi ripete più volte, per rendere ancor più duro l’impatto del quesito nello spettatore. Procedendo verso la conclusione, nei pianoforti si innesca un disegno dalla meccanica stupidità, a maglie strette, che porta a una grande climax che conduce alle parole «l’ignota morte appar», ma questo attimo tremendo scema, si frammenta, prosegue in cellule ritmico-tematiche sempre più lacere ed esauste. Il coro intona valori lunghi, gli strumenti iniziano disegni senza poi terminarli, lasciandoli interrotti, e su queste espressioni diafane si leva il canto stavolta melodico degli ottoni. Il coro termina il proprio intervento in un lungo accordo vuoto (composto da ottava, quarta e quinta, vale a dire gli intervalli maggiormente ricorrenti nella scrittura vocale del Coro di morti), lasciando all’orchestra il compito di giungere al cupo ed enigmatico finale.
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