Premio UBU 2014 come novità italiana
La terra è il tema del nostro mese. Ma il sostantivo TERRA è possibile declinarlo in molti modi.
Ad esempio parlando di uno spettacolo che mette in relazione due paesi dello stesso continente (l’Italia e la Grecia), due terre, appunto, rese ancora più vicine e simili dalle conseguenze della grande recessione.
Una crisi a tre livelli investe la scena nuda e nera della sala Cieslak del Teatro Era, la sera del 25 marzo.
L’immagine di partenza da cui nasce Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, spettacolo vincitore del premio Ubu 2014 come novità italiana/nuova ricerca drammaturgica, è quella della crisi economica greca, tratta dal romanzo L’esattore di Petros Markaris.
Qui, quattro anziane signore si tolgono la vita, insieme, perché schiacciate dai debiti e con la pensione ridotta al minimo.
Sulla scena però si palesa un’altra crisi, quella dell’attore, anzi, dei quattro attori che hanno lavorato al progetto.
“Pensavamo di non farlo. No, non un ritardo di dieci minuti o un problema tecnico, pensavamo proprio di non farlo! Non siamo pronti!” Così esordisce Daria Deflorian, anche a nome dei suoi compagni, il co-autore e co-regista Antonio Tagliarini, Monica Piseddu e Valentino Villa.
Forse quel racconto, che parla di un’altra terra, un’altra cultura, risuona dentro come qualcosa di conosciuto, di vicino, di vissuto. O di possibile.
“Il nostro lavoro si è interrotto quando, aprendo il giornale una mattina, abbiamo scoperto che in provincia di Macerata tre pensionati si erano tolti la vita con modalità simili a quelle del libro di Markaris. ” Continua Antonio Tagliarini.
Ecco che compare allora l’ultima crisi, la più potente, quella che coinvolge anche lo spettatore: la crisi dell’uomo di fronte alle miserie di un altro uomo.
Non sono più solo le pagine di un romanzo. Come farci i conti adesso?
La sottile drammaturgia lega le vite personali degli attori al racconto della tragedia lontana, materializzando sulla scena il percorso artistico che questi hanno affrontato.
Deflorian e Tagliarini sfiorano la possibilità di sviscerare davvero fino in fondo la crisi che li avvolge, usando la prima battuta del testo come una cornice nella quale racchiudere la messa in scena, invece che come punto di partenza per una riflessione nuova e necessaria, anche sul loro ruolo di attori.
Efficace la scena, fredda e vuota: ci sono solo quattro sedie e un tavolo, che comparirà alla fine. Lo spazio è quello di una sala prove, in cui il processo di creazione è ancora in atto.
Uno spettacolo fatto quasi interamente di parola, una parola però che sa toccare i punti giusti, ed arrivare, empatica, intima e, a tratti, perfino ironica, allo spettatore.
Chiara Lazzeri
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