Nonostante gli incoraggianti frutti che ci sta donando in questi anni il cosiddetto Rinascimento caselliano, non è sempre semplice trovare nuove incisioni discografiche legate al Novecento musicale italiano, e soprattutto di grande qualità. Pertanto la notizia di un disco nato dall’attività di un binomio così ben consolidato – e che abbiamo già avuto modo di conoscere – come quello formato dal M° Daniele Rustioni e dall’Ochestra della Toscana non può che essere accolta con grande entusiasmo; soprattutto se “l’ospite d’onore” è Giorgio Federico Ghedini.
Probabilmente a molti non dirà nulla questo nome ed è, invero, un gran peccato. Ghedini è indubbiamente uno dei compositori più enigmatici – assieme a Gian Francesco Malipiero – tra quelli della scuola italiana del primo Novecento: essenziale, eclettico, coltissimo e grande appassionato di musica antica, Ghedini ha infuso la propria poliedrica personalità nelle pagine vergate con quella sua grafia nervosa.
Sicuramente non si tratta di un ascolto semplice, si può ben dire che per essere recepito al meglio necessiti di un certo animus. Eppure esiste qualcosa di magnetico nell’uso che Ghedini fa delle forme classiche e nella sua affascinante poetica di collegamento tra la musica antica e quella contemporanea, riuscendo a far convivere il linguaggio di due epoche attraverso il rigoroso esercizio del contrappunto e delle forme, perché se è vero che a un primo e superficiale ascolto sembra di cogliere dell’anarchia nelle note di Ghedini, questa anarchia è solo apparente. Alle regole che il compositore decide di lasciarsi alle spalle «ne subentrano altre, non meno rigide, non meno legittime, non meno ferree, non meno logiche», per dirla con le parole di Alfredo Casella.
In questo senso diventa quindi immediato cogliere il senso della complessa architettura delle composizioni di Ghedini, come i travagliati Appunti per un Credo. Questa pagina, che apre l’eccellente progetto discografico dell’ORT, è permeata da tanta dolorosa sacralità capace di richiamare alla mente fin dalle prime battute le atmosfere modali della tradizione gregoriana e l’austerità di suggestioni chiesastiche, così ben rese grazie al sapiente intreccio dei timbri strumentali che riesce a evocare la voce dell’organo e che la bacchetta del M° Rustioni riesce a rendere con grazia magistrale. A questo primo episodio poi ne seguono altri, dal tono ora più riflessivo, ora più dolente (forse un Crucifixus?), fino alla conclusiva e grandiosa climax in cui si affaccia, commovente e concreta fin quasi al terrore, l’ultima potente affermazione: Confiteor unum Baptismain remissionem peccatorum. Et exspecto resurrectionem mortuorum, et vitam venturi saeculi.
A questo primo, impegnativo brano, ne segue uno molto più delicato e rarefatto, ma non meno interessante: Musica notturna. In questa composizione, di rara dolcezza, si affaccia ogni tanto un singolare passaggio in cui le dissonanze precedentemente accumulate dagli archi si risolvono in un accordo tonale reso poi più misterioso dai legni, che con grande semplicità è capace di restituire all’ascoltatore lo sguardo di un paesaggio notturno ammantato di luce lunare, una volta celeste ingioiellata di stelle. Memorabile anche il dialogo dei due violini solisti che costituisce uno degli elementi che ciclicamente si ripresentano in questo canto “a due” di struggente sincerità, qui eseguito dalla bravissima Chiara Morandi e dal compianto Andrea Tacchi. Senza voler scadere in facili patetismi, questo è un buon modo per ricordarlo.
Di tutt’altro colore la complessa composizione Studi per un affresco di battaglia. Già il vigoroso attacco – che richiama palesemente tanto Beethoven quanto Šostakovič – ci fa intuire la natura tumultuosa del brano il cui fraseggio è senza dubbio più spontaneo di quello di altre composizioni di Ghedini, ma questa spontaneità non va assolutamente a discapito della consueta ponderatezza del compositore, come peraltro testimonia facilmente il ricorso fin dalle pagine iniziali a un rigido contrappuntismo. Casomai si può indicare la grande quantità di spunti tematici presenti nel brano: alcuni appaiono solo di sfuggita, altri hanno una lunga esposizione, altri ancora vengono presentati ciclicamente e sempre in modo differente; insomma, in questo lungo “esercizio di stile” Ghedini ha dato fondo alla propria creatività, impiegando anche effetti molto caratterizzanti, come gli ottoni con la sordina di metallo che emettono un particolarissimo suono crepitante e, appunto, metallico. In questo vasto Affresco tanto l’orchestra quanto il M° Rustioni hanno dato valida prova del proprio ventaglio espressivo, capace di adattarsi camaleonticamente alla variegata tavolozza di Ghedini, in cui si alternano momenti truci, cantabili, atterriti, a volte quasi grotteschi.
Come conclusione di questo breve ma corposo viaggio nella musica di Federico Ghedini si incontra il flauto solista di Andrea Oliva, protagonista dell’enigmatica Sonata da concerto per flauto e archi. Questa composizione, fortemente sperimentale e che risente profondamente dell’esperienza musicale europea del primo Novecento, è percorsa da tangibili inquietudini che ora vengono mitigate dal canto quasi derisorio del flauto, ora invece vengono rintuzzate dai passaggi furiosi dell’orchestra. Uno crudele gioco che contrappone sempre solista e orchestra e mentre le due compagini si provocano a vicenda da questa furiosa danza vengono evocate le più appassionanti emozioni, passando da atmosfere di angoscia e sgomento a situazioni senz’altro più intimiste, ma in cui si avverte distintamente un dolore come ripiegato su se stesso. Alla fine, dopo tutte queste avventure dell’anima, si arriva quasi inspiegabilmente al movimento conclusivo (“Vivace e leggero”), dal carattere molto più lieto e solare, in cui si avverte senz’ombra di dubbio un profumo tipicamente italiano; una conclusione simile a quella di alcuni drammi antichi in cui l’autore si premurava di chiedere scusa al pubblico se qualche passaggio dello spettacolo aveva turbato gli spettatori. Insomma, come scriveva T. S. Eliot: «Shantih, shantih, shantih».
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