Capire l’arte a Pisa ai tempi di Dante: incontro con Marco Collareta

PISA – Sabato 27 maggio in occasione della manifestazione Danteprima, presso l’Aula Magna di Palazzo Boileau, si è tenuto un incontro con il professor Marco Collareta sull’arte ai tempi di Dante tra Pisa e Firenze. Un viaggio attraverso le opere più importanti che hanno segnato la svolta artistica trecentesca intrecciandosi con le parole del Sommo Poeta.

Da sinistra: Marco Santagata e Marco Collareta

 

Capire l’arte medievale e in particolare quindi quella in cui Dante ha vissuto e da cui è stato contaminato e ispirato è un processo che necessita categorie interpretative diverse da quelle attuali: per capire come Dante vedeva l’arte ai suoi tempi dobbiamo capire come l’uomo medievale concepiva la figura, la parola, le immagini, cosa che è lontanissima dal nostro modo attuale di vedere e osservare. L’arte medievale non va letta con una posizione ingenua ma con una coerente in cui lo storico dell’arte si mette al servizio dell’opera stessa e cerca di capire cosa essa vuole dire e significare attraverso l’epoca e la struttura sociale e ideologica che l’ha creata. Quello che per noi è ora arte magari per Dante non lo era, quindi bisogna mettersi nella posizione del medievale per apprezzare la creatività dantesca e come questa ha influito.
Per capire dunque Dante e la sua opera bisogna capire per primi che egli è stato un poeta visivo, incredibilmente influenzato dall’arte che lo circondava e illustrato a sua volta in una lunghissima tradizione. La scrittura e la lingua dantesca risultano ancelle alla pittura contemporanea, esse avevano delle possibilità creative che la pittura giottesca ancora non aveva e poteva esprimere con più creatività e contenuto ciò che invece in un’immagine mancava. Pittura e scrittura in Dante diventano le facce di una stessa medaglia, si rincorrono e si influenzano a vicenda. Dante ha colto molto dall’arte del suo tempo, soprattutto da Pisa e Firenze che nel XIII e XIV secolo erano città fiorenti artisticamente, ma ha una grossa colpa che si è portato dietro nelle letture e interpretazioni della Commedia: far pensare al medioevo come l’arte degli artisti. Questo, ha affermato Collareta, è per la maggior parte un errore che ancora oggi serpeggia, quando invece nel medioevo gli artisti spesso non firmavano le opere e molti si identificavano con una sola opera (cosa che invece a Pisa non accade perchè qui la figura dell’artista era già precocissima con Buscheto, per poi diventare preponderante con Nicola e Giovanni Pisano).
Ciò che Dante fa passare alla memoria nella Commedia sono i maggiori artisti conosciuti al tempo come Giotto e Cimabue che hanno lasciato opere capitali proprio a Pisa, come la Maestà del Louvre, che si trovava nella chiesa di San Francesco, e la tavola delle stimmate di San Francesco, una delle tre uniche opere firmate da Giotto, anch’essa a Pisa. Dante capisce perfettamente la distanza artistica tra Cimabue e Giotto, dalla maniera greca a quella latina, dalla bidimensionalità alla ricerca di uno spazio e di profondità. Ed è proprio in questo periodo di inizio del trecento che l’arte inizia a rivoluzionarsi nella dimensionalità e nella ricerca del realismo, e Dante vive direttamente questo cambiamento, quello che appunto ha trasformato anche le immagini della Crocifissione da un corpo piatto (Crocifisso di Cimabue) e un corpo che può essere staccato dalla superficie fatto di muscoli e peso, come quello di Giotto di Santa Maria Novella, dove lo spazio acquista una nuova dimensione verso il reale.

Crocifissio di Giotto di Santa Maria Novella

La svolta artistica di Giotto investe anche pittori minori come Deodato Orlandi che nel 1308 realizza un Crocifisso con un’espressività molto dantesca, l’arte prende una nuova direzione e Dante non esita a ribadirlo, spiegando anche il metodo con cui gli artisti medievali lavoravano: «come pittor che con esempio pinga». Questo indica che il pittore medievale quando vuole dipingere qualcosa ha in mente questo qualcosa, ma non parte dalla realtà, bensì sempre da uno schema, da un esempio per riproporlo nella sua versione, come ad esempio ha fatto Giunta Pisano col Crocifisso del San Domenico a Bologna, realizzato con le medesime misure del Crocifisso di Cimabue. L’artista medievale non ha mai avuto quella concezione “romantica” del pittore impressionista che vede e dipinge il reale, ma si è sempre fatto guidare da degli schemi della tradizione, dalla memoria e sopratutto dai testi sacri, finendo anche ad intrecciare parole e immagini nelle miniature, dove il verbo “legere” e il verbo “videre” avevano lo stesso significato.

Gli artisti medievali in sostanza si riconoscevano per una o due opere importanti e ne firmavano pochissime: ad esempio il Mosaico dell’abside maggiore del Duomo di Pisa è l’unica opera documentata a nome di Cimabue che di dice che nel 1302 Cimabue era ancora un artista amato e apprezzato, nonostante Dante dicesse che Giotto gli avesse rubato la scena (Giotto era sicuramente più imitato a Siena e Firenze). Colui che veramente però inaugura la figura dell’artista a tuttotondo e conscio di sé è Giovanni Pisano che addirittura si firma in maniera mirabolante eclissando il padre nel pulpito di Pistoia e definendosi «scientia meliore dotatus», fino a dire (in una lunghissima firma del pulpito pisano) che non avrebbe potuto scolpire figure brutte nemmeno se voleva, ritenendosi degno di un diadema imperiale.
Il viaggio attraverso le opere maggiori del trecento è continuato con lo studio delle opere di Vanni di Bindo, Simone Martini, Lippo Menni e altri maestri senesi che hanno influenzato artisti pisani come Francesco Traini che realizza opere posteriori alla morte di Dante. Traini è un giottesco di fronda, fondamentale nella tradizione dantesca, rappresenta esso stesso l’immaginario dantesco nell’illustrazione dell’Inferno di Chantilly, un prestigioso manoscritto con il commento di Guido da Pisa. L’impatto di Dante nell’arte pisana si trova in particolare nell’immaginario infernale: l’Inferno di Buffalmacco del Camposanto Monumentale, il manoscritto e la Crocifissione del Camposanto di Traini, sono tutte opere che parlano attraverso la lingua e l’impostazione dantesca. L’onda lunga di Dante a Pisa compare anche in un dipinto attribuito a Bruno (l’amico di Buffalmacco) dove Pisa viene salvata da S.Orsola e le sue compagne, in un paesaggio che ricorda il passo dantesco «movesi la Capraia e la Gorgona…». Un dipinto che richiama un programma di teologia politica molto forte dove la città viene salvata da una Santa, quindi tramite l’aiuto del divino e non di un personaggio politico.

Dante è sempre fulminante quando parla di opere d’arte, ma la miglior definizione di arte come «recta actio operandi», nella visione medievale di Tommaso D’Aquino è nella descrizione del mantello di Gerione nell’Inferno. Il poeta lo descrive come un mantello maculato fantasioso, fatto di trama e ordito come se fosse un tessuto islamico finemente decorato. Questa descrizione richiama inevitabilmente il Grifone dell’XI, XII secolo conservato al Museo dell’Opera del Duomo che ha il manto simile ad una stoffa islamica con intrecci e scritte cufiche. Questo spiega come Dante avesse un occhio finissimo per l’arte del suo tempo e come riuscisse a portarla all’interno della sua opera.
Nel Purgatorio Dante continua a parlare di arte e di artisti e individua Oderisi da Gubbio tra gli orgogliosi, e lo confronta con un altro artista bolognese (Franco Bolognese) nella medesima maniera in cui confronta Giotto e Cimabue: Dante non ha una visione rinascimentale di sviluppo artistico come aveva il Vasari, ma parla degli artisti e anche dei poeti in modo singolare, come se ognuno di loro avesse consapevolezza della propria arte e della propria bravura ponendosi al di sopra di chi era venuto prima, anche se l’artista in questione faceva un mestiere “da nulla”. In Dante la successione delle generazioni artistiche non è quindi verso uno sviluppo artistico hegeliano ma può risolversi anche in una contraddizione e cambiamento totale, in uno sviluppo nella diversità, e Dante coglie questo cambiamento anche nella moda e ne parla nel medesimo modo nel De vulgari eloquentia.
La lezione si è conclusa con una visita alla mostra Nel solco di San Pietro presso Il Palazzo dell’Opera e Camposanto Monumentale di Pisa.

Virginia Villo Monteverdi
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