Anima persa (Dino Risi, 1977)
I dimenticati: anime mascherate in quel di Venezia
In un periodo non troppo lontano dai giorni nostri, i grandi autori della narrativa moderna venivano utilizzati dai grandi cineasti per trarre sceneggiature: basti pensare alle decine di pellicole basate sui soggetti di Verga, Moravia, De Filippo, Calvino, Flaiano e via dicendo. Tuttavia ci sono stati anche altri autori che al cinema hanno dato parte della loro produzione letteraria, autori che normalmente non sono annoverati tra i classici ma che hanno contribuito alla costruzione di un immaginario novecentesco sulla carta stampata e anche sul grande schermo. Tra questi è possibile citare: Tonino Guerra, Piero Chiara, Alberto Bevilacqua, Giovanni Arpino e molti altri.
In questo spazio ci soffermeremo su Giovanni Arpino, autore nel 1966 del romanzo Un’anima persa. Dino Risi e lo sceneggiatore Bernardino Zapponi utilizzeranno questo soggetto di Arpino (autore che Risi già utilizzò per Profumo di donna) ma ambienteranno la vicenda a Venezia anziché a Torino. Risi affermò infatti la modifica del testo originale: “il romanzo lo abbiamo modificato e dilatato…Neppure Arpino è stato informato di questa aggiunta, ma dopo Profumo di donna credo si fidi di me”. La scelta della città veneta è riconducibile al tono enigmatico che si è voluto imprimere alla vicenda: non esiste altra città al mondo (città labirinto fu ribattezzata dal regista in un’intervista coeva all’uscita del film) in cui la natura umana può essere mascherata in modo migliore che non a Venezia.
L’anima – o meglio le anime – sono quelle di Fabio Stolz (Vittorio Gassman) ed Elisa (Catherine Deneuve), zii di Tino (Danilo Tommasi), ospite in laguna per cominciare i suoi studi in pittura. Con il passare dei giorni il giovane si accorgerà che nella dimora veneziana degli Stolz si nascondono le tracce di un passato che non andrebbe riportato a galla.
Dino Risi con Anima persa mette in scena una mascherata basata sulla follia dell’animo umano, sulle perversioni e deviazioni che possono colpire chiunque, sul disfacimento dei rapporti familiari e sulla incomunicabilità tra generazioni: tutti temi che torneranno protagonisti nei film di Risi tra il 1977 e il 1981 come La stanza del vescovo, Caro papà, Fantasma d’amore.
L’abusatissima location lagunare – negli anni ’70 usata in ogni genere cinematografico, basti pensare al classico strappalacrime Anonimo veneziano, ma anche agli horror e thriller Solamente nero, Chi l’ha vista morire, A Venezia un dicembre rosso shocking – è usata da Risi non come cartolina turistica, ma in modo funzionale alle vicende raccontate: si indugia sul manicomio di San Servolo, il cimitero di San Michele, una grossa nave abbandonata, un palazzo grigio e cupo come quello degli uffici dell’azienda del gas. Anche nella casa degli Stolz – ricostruita, per gli interni, in un teatro di posa romano, mentre l’esterno coincide con Palazzo Fortuny – presenta un campionario dell’immaginario nobiliar-decadente: ragnatele, statue e bambole rotte, pianoforti infestati da topi, scale scricchiolanti e muri scrostati.
Gassman, come accadrà nel successivo Caro papà, ruba letteralmente la scena al giovane protagonista e tramite la sua parlantina infusa di vecchia cultura mitteleuropea cerca di costruirsi una maschera per nascondersi sia dalla realtà che lo circonda ma soprattutto dall’altra realtà che lo permea. La Deneuve, invece, è un’entità fantasmatica, bianca, ma non eterea, un po’moribonda e fintamente curata: una donna che riflette la visione che si vuol dare di Venezia e allo stesso tempo di una donna che nasconde un altro passato, un’altra storia.
Ad un certo punto di Anima persa, molto prima del disvelamento del mistero che sottende tutta la vicenda, Gassman pronuncia le seguenti parole riferite al fratello (immaginario): “un giorno cominciò a mettersi in testa un’idea, una pazzia, un cavillo, in fondo è sempre per un cavillo che si impazzisce. Cominciò a temere che la faccia, la sua faccia, gli scivolasse via, pensa un po’, gli scendesse lungo il petto fino a piedi, per perdersi sul pavimento, hai capito?…Un’idea, una fissazione agghiacciante. E allora cominciò a specchiarsi più di frequente per controllare se magari gli occhi, il naso e la bocca non fossero scesi di qualche centimetro…Questa sua mania ha una spiegazione psichica molto evidente: la paura di vedersi scivolare via la faccia non è altro che la paura di perdere la propria identità, perdere se stessi”.
Se la maschera fosse caduta, Fabio ed Elisa Stolz non avrebbero più potuto continuare a vivere una vita non loro, nella quale le vicende del passato, seppur nerissime, sono da considerarsi le uniche ancore di salvezza.
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