Dino Campana e i “Canti Orfici”

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oesMa come partire? La mia pazzia tranquilla quel giorno lo irritava. La paralisi lo aveva esacerbato. Lo osservavo. Aveva ancora la faccia a destra atona e contratta e sulla guancia destra il solco di una lacrima ma di una lagrima sola, involontaria, caduta dall’occhio restato fisso: voleva partire

Marradi con le sue 3.000 anime e’ uno degli ultimi lembi della provincia fiorentina che abitano la Linea Gotica specchiandosi nelle onorate vicinanze emiliane che vedono Faenza emergere per la sua sontuosa storia. Territorio di confine, come quella Pavana dalla provincia di Pistoia in cui si formò il piccolo Francesco Guccini che, nato a Modena, ritornò poi ragazzo, sul ciglio della maturità, a Bologna e nell’Emilia, resa da lui epica, per terminare questo particolare intreccio di ritrosi nella sua Pavana che oggi lo ospita. Ma Marradi non ha nulla di inferiore rispetto a Pavana, comunemente i passaggi a Faenza e Bologna non mancano e la ricomparsa costante dopo innumerevoli batoste lascia comprendere quante somiglianze della vita del Guccio occorrano con la caduca esistenza riservata a Dino Campana, il poeta pazzesco di quei “Canti Orfici” che, smarriti all’alba del 1914 dai colleghi di rime Giovanni Papini e Ardengo Soffici, saranno ricopiati, ricordandoli a memoria, solo nell’estate dello stesso anno dallo stesso Campana.

copertina canti orficiIl manoscritto, sparito e ritrovato soltanto nel 1971 nella casa di Soffici a Poggio a Caiano, rappresentava l’unica testimonianza degli scritti fino ad allora registrati da Campana, che ebbe in quest’occasione uno dei numerosi momenti di escandescenze dovute alla sua schizofrenia. La malattia che, in collaborazione con la mancanza di affetto da parte dei genitori (in particolare della madre che gli preferiva ampiamente il fratello minore Manlio) e con la morale medievale del tempo, intimamente legata al desiderio di riempire i manicomi, lo svuotarono senza speranza del talento culturale riconosciutogli già in vita da tanti intellettuali oltreché della sanità fisica.

Ma, nonostante tutto, dal manicomio di Castel Pulci a Badia a Settimo (Firenze), in cui lo confinò a vita il padre dal gennaio 1918 sino alla morte nel marzo 1932, Campana cercò di scappare con il suo fisico malfermo, procurandosi un letale taglio allo scroto nell’inseguimento di quella libertà errabonda che è la principale luce della vita e della poesia.

Dino Campana è sempre stato consapevole del proprio difetto esistenziale e con invidiabile autoanalisi ne ha fatto argomento principale di alcune sue riflessioni.

Essendo una carogna in decomposizione abbraccio l’universo. Guardate il mio cromatismo, i miei verdi e violetti. Guardate al resto, il mio scheletro, ci sono dunque esisto.”

egli dichiara nel frammento “Biologia”, mettendo in rilievo due aspetti contrapposti della sua vita. Da una parte la prigionia della malattia e dall’altra gli sberleffi feroci da parte del mondo, rispetto ai quali il poeta, in una lettera del 1914 a Papini scriveva, con la sua caratteristica schiettezza:

“Io sono indifferente, io che vivo al piede di innumerevoli calvari. Tutti mi hanno sputato addosso dall’età’ di 14 anni“.

In questa giovanissima età si manifestarono i primi segnali evidenti della schizofrenia, che i genitori accolsero con brutale esagerazione rinchiudendolo appena ventenne nel manicomio di Imola e causando di li a poco le fughe iniziali di Dino da Marradi.

indexNel 1906 dopo Genova giunge sino in Svizzera e poi in Francia, ove entra in contatto con gli ambienti intellettuali, ed in particolare con la letteratura di Apollinaire e col linguaggio dei pittori cubisti, da cui trae la predilezione alla scrittura di poesie brevi e concentrate in sfumature descrittive molto variabili. E difatti il secondo aspetto cui accennavamo in precedenza relativo al “cromatismo” del poeta, si lega alla sua capacità, definita “unica” da parte dei suoi colleghi contemporanei, nel prendere spunto dai suoi passaggi estemporanei nei dintorni di Marradi, come tra le strade di Firenze, Bologna e Genova, per dare voce e sfogo al suo inesauribile delirio di visioni irrealistiche.

Dalle pampas argentine, in cui si avventurò nel 1918, ai frequentissimi “scorci” in cui sono omaggiate le storie secolari dei comuni italiani, Campana compie i suoi vagabondaggi a piedi sul selciato e riempie il taccuino secondo un gusto minuzioso per i dettagli che lo avvicinano alla pittura metafisica di metafisica di De Chirico.

“Ad ogni poesia fare il suo quadro”

egli annota a pagina XI del “Taccuinetto faentino”. La condivisa evocazione della storia passata delle città italiane e degli ambienti incontaminati si riversa all’interno di “Canti Orfici” e dei “Taccuini, Abbozzi e Carte varie” a intrattenere le passeggiate del poeta che, dall’alto della sua speciale qualità “visiva”, riveste i luoghi visitati dei significati universali, a lui accessibili attraverso il compito esclusivo di “veggente” che lo stesso Eugenio Montale gli attribuì.

Al pari di Nietzsche, il poeta fiorentino coglie dalla malattia il dono sovrumano di saper leggere nelle interiora della realtà, di squarciare il velo misterico, il famoso “orfismo” di tradizione classica con il quale definisce la sua poesia.

Da qui la scelta di “Canti orfici” perché depositari dei significati nascosti, delle allegorie ereditate da Dante e di un fondamentale simbolismo riconducibile al decadentismo francese dell’epoca.

E’ questa l’atmosfera all’interno della quale Campana pennella un’ autentica galleria di idoli moderni, interpretati dalla “vecchia matrona”, la “giovane schiava”, e da altri abitanti delle “stradine”. Nella sezione iniziale “La Notte”, che si segnala come innovativa dal punto di vista stilistico, Campana esordisce in un flashback accorato nei confronti di Faenza sua città della giovinezza.

“Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita,arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido“.

In pieno pomeriggio egli si imbatte nella piazza deserta e la fontana cinquecentesca diviene l’ espressione dell’arte che, per mezzo dei suoi capolavori non scalfiti dal tempo, rende possibile la conservazione di una moralità vera persa dalla società circostante.

Campana individua così una religione del tempo ed in modo specificamente personale il canale attraverso cui conseguire la realizzazione della sua poesia.

Accanto alle bellezze artistiche, campeggiano i numerosi riferimenti alle occasioni d’amore vissute dal poeta da adolescente (“nel mondo arido e dolce dei pensieri sterili”), che, all’interno di abitazioni oscure o di boschi isolati, si imbatte in donne e fanciulle incarnazione di mitiche figure femminili, fragili compagne del suo ego all’interno del fallito tentativo di poter concretizzare il suo progetto narrativo.

Un intento al quale il poeta deve progressivamente venir meno a causa dell’imporsi del suo morbo, che gli impedisce di poter dare seguito al fulmineo e pulsante stato di ispirazione mediante il quale i “Canti Orfici” consegnano una visione di sensi ed invenzioni rimasta inimitabile.

Enrico Esposito 

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