Xavier Dolan e La follia Amorosa
Il cineclub Arsenale inizia il 2016 con la riuscita rassegna “La follia dell’amore/Xavier Dolan” dedicata appunto ad uno dei registi più interessanti del cinema indipendente. Gli organizzatori del cineclub si sono messi a nostra disposizione per argomentare le scelte della programmazione e la qualità del cinema di Dolan: «L’Arsenale da sempre promuove la cinematografia di qualità, con particolare attenzione a quei film e a quegli autori che incontrano difficoltà nel trovare una adeguata distribuzione. In particolare i film di Dolan, nonostante i numerosi riconoscimenti internazionali, erano praticamente inediti per l’Italia»
Xavier Dolan è legato inevitabilmente alla tematica dell’omosessualità, particolarmente discussa in Italia nel burrascoso mese di gennaio in coincidenza con il decreto Cirinnà. Il cineclub Arsenale «sin dall’inizio ha trattato tematiche scomode all’opinione pubblica, come rassegne ed incontri sul cinema gay o più in più in generale su temi legati al rispetto di ogni “diversità”». In questo caso però l’interesse degli organizzatori è rivolto soprattutto a sottolineare l’aspetto di maggiore ampiezza della cinematografia di Xavier Dolan: la follia amorosa. Vera protagonista della breva ed intensa produzione cinematografica del 26enne di Montréal è infatti l’amore oltre ogni limite che viene riassunto perfettamente dal poeta romantico francese Alfred De Musset in “Il n’y a de vrai au monde que de dèraisoner d’amour”. Gli organizzatori del cineclub ci tengono però a precisare che «anche se in questo caso non esiste un legame diretto con il dibattito attualmente in corso sulla legge Cirinnà, l’Arsenale è chiaramente in prima linea nella battaglia per il riconoscimento di tutti i diritti civili alle coppie omosessuali».
Il neoromanticismo di Dolan raccoglie storie di amore oltre ogni limite: legami eterosessuali, omosessuali, transgender e genitoriali. «Dolan tratta l’amore in ogni sua declinazione. Questo è un tema insidioso di trappole, il cui rischio è quello di cadere nell’ovvio e nello scontato. Lo sguardo del regista invece è capace di affascinare e catturare lo spettatore. Il suo linguaggio risulta assolutamente innovativo per il suo modo di raccontare tramite immagini e musica. La sua abilità di “metteur en scène”, nel senso pieno del termine, è veramente sorprendente vista la giovanissima età ed è attraverso questo suo assoluto controllo del mezzo tecnico che Dolan riesce a creare una sorta di empatia totale fra il pubblico e i suoi personaggi. Con modi delicati, a volte quasi con pudore, riesce tuttavia ad essere spietato nella maniera in cui la sua camera, sempre addosso ai personaggi, scava e rivela emozioni e sentimenti. Direi che forse la cosa che sorprende e affascina in Dolan è la sua capacità di mettere a nudo l’animo umano con l’arma della semplicità ma, allo stesso tempo, con grande raffinatezza, rifuggendo il banale grazie alla sua straordinaria sensibilità. Sta di fatto che chi entra nell’universo di Dolan difficilmente se ne può distaccare».
Il primo appuntamento in sala è stato l’11 gennaio con la proiezione di J’ai tué ma mère, primo lungometraggio realizzato nel 2009, quando Xavier ha solo 20 anni. Film complesso e burrascoso narra la rabbia e la codipendenza del giovane Hubert nei confronti della madre, interpretato con abilità dallo stesso regista. Hubert si trova in uno stato di transizione, di esplorazione di se stesso, di scoperta della propria omosessualità. Il titolo evoca l’uccisione della madre in una interpretazione in chiave psicoanalitica incentrata sulla simbologia del distaccamento dall’utero materno necessario per l’affermazione di un io adulto. La particolarità di Dolan sta proprio nella rappresentazione di quel grembo materno, attraverso il rapporto con gli ambienti architettonici interni della casa della madre. Le stanze diventano un luogo soffocante, carico di dettagli kitsch anni 80 in stile horror vacui dove Hubert reagisce alle manipolazioni genitoriali con rabbia e senso di colpa.
Les amours imaginaires rappresenta l’eccessiva passione amorosa e il contenzioso di due amici, Francis e Marie per il narcisista Nicolas. Se nel precedente J’ai tué ma mère Dolan strizza gli occhi al Truffaut dei I quattrocento colpi, in questo film il suo sguardo si direziona maggiormente verso la cinematografia di Jean-Luc Godard. Inoltre il regista tende all’abbattimento dei generi: non c’è alcuna differenza tra l’attrazione sessuale di Marie e quella di Francis per Nicolas. Entrambe sono governate da una follia amorosa destinata al fallimento. Proprio come quella che ha dominato i personaggi extra, senza nome, che appaiono nelle interviste documentaristiche che si inseriscono nella trama del film come brillanti intramezzi. La passione amorosa viene liberata da ogni cliché, vivisezionata nella sua essenza, nella sua potenza distruttiva.
Lawrence anyways è carico di virtuosismi visivi di rimando all’estetica anni 80 che Dolan riesce abilmente a ricostruire pur non avendola mai vissuta. Lawrence è un professore che desidera diventare donna pur amando la sua compagna. Al di là di ogni confine i due provano a restare uniti in questo percorso di metamorfosi. Eppure questo mutamento d’identità sessuale non viene compreso da molti. Questi ultimi lo considerano un capriccio dell’ego del professore o un’azione egoista nei confronti della propria compagna alimentando il dolore e l’angoscia del professore. La scelta di diventare donna anziché condurlo alla libertà, finirà inevitabilmente per portare alla separazione dei due amanti. Lawrence sembra destinato alla propria frammentazione, posto di fronte alla drammatica scelta di essere uomo per avere la propria compagna o diventare se stesso rinunciando al suo più grande amore. Dolan si interroga sulla finzione e sulla realtà, sull’artificiosità dell’esistenza senza trovare risposte precise. Qual è la verità di Lawrence? Ricorrere all’artificiosità di tacchi e reggiseni per mostrare la sua vera inclinazione o essere ciò che la natura gli ha imposto sotto forma dell’uomo in jeans e maglione? L’unica verità in Lawrence è la travolgente passione amorosa che nutre nei confronti della sua compagna.
Tom à la ferme muta radicalmente il linguaggio visivo, evitando ogni cromatismo saturo e virtuoso. Dolan rappresenta il mondo rurale canadese attraverso una maggiore sintesi che però acquisisce toni cupi e morbosi. Il protagonista è ancora una volta interpretato dal regista, Tom, un creativo appartenente al mondo postmoderno della metropoli. Il suo più grande amore, completamente idealizzato, è morto per circostanze che non vengono mai chiarite. Ciò che interessa non è il motivo dell’assenza di Guillaume, ma il suo fantasma che crea una perversa unione di rabbia ed attrazione tra Tom e Francis, allevatore omofobo. Crudele e angosciante negli interni vuoti della casa di campagna e nella rappresentazione dei campi di grani, tra le cui spighe ci si nasconde cercando l’unica possibile via di uscita. Lirica la scena finale in cui Xavier decide di accompagnare la fuga del ritorno verso la città con “Going to a town” di Rufus Wanwright. La scelta musicale riesce perfettamente a sottolineare quel contrasto tra il Canada più rurale e bigotto, e il modello americano che dominano la vita di Tom con quel “I am so tired of America”.
Il lavoro più maturo del regista è senza dubbio Mommy, premiato a Cannes nel 2015 ad ex equo con il capolavoro Adieu au langage di Jean-Luc Godard. Il regista canadese torna ad affrontare lo spinoso rapporto genitoriale. L’infantile madre Diane vuole salvare ed accudire l’irrecuperabile figlio, Steve. Il regista riesce attraverso il suo personale uso della macchina da presa e nella scelta del formato 1:1, che isola i personaggi nella loro solitudine abissale, a rendere la vicenda familiare vicina allo spettatore, a coinvolgerlo empaticamente. Inoltre la colonna sonora formata dalla musica più radiofonica, da Dido a Lana del Rey non solo rappresenta una comune compilation, ma sottolinea nell’assenza visiva un piccolo accenno di presenza: la figura paterna.
L’evento dell’Arsenale è assolutamente riuscito nel cogliere i molteplici aspetti del regista canadese. Inoltre l’organizzazione commenta che «è stato abbracciato non solo da un vasto pubblico di cinefili ma ha sorpreso per la grande partecipazione dei giovani. Infatti Xavier Dolan ha tutti gli ingredienti per poter incuriosire vecchie e nuove generazioni».
Quindi non ci resta che aspettare il prossimo film: Juste la fin du mond, di cui da poco sono terminate le riprese, ed il suo progetto più ambizioso, The Death And Life of John F. Donovan, con un cast importante sperando che il regista non perda la sua genuinità e il suo talento a contatto con Hollywood.
Francesca Lampredi
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