Disconnect. I rapporti umani nell’epoca wireless

Disconnect (Disconnect, Henry Alex Rubin, 2012)

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I rapporti virtuali sono diventati una tematica sempre più attuale, che necessita di continue riflessioni, anche a causa degli ultimissimi fatti di cronaca, tra cui la morte di Tiziana Cantone. Henry Alex Rubin realizza il suo primo lungometraggio di finzione, Disconnect, cavalcando quest’onda, ponendo lo spettatore di fronte a un’analisi, forse un po’ epidermica, sui nuovi media e sulla comunicazione.

Disconnect, presentato alla sessantanovesima edizione del Festival di Venezia nel 2012, riprende la struttura corale tipica di molti film indipendenti americani, come Crash di Paul Haggis. Eppure Rubin non vuole solo allacciarsi a questo filone, ma delineare quanto le vite di più persone possano intrecciarsi, connettersi l’una all’altra come gli utenti a una rete wireless.

Tre storie delineano le maggiori problematiche dei rapporti sul web: truffe, cyberbullismo e sesso virtuale. L’intreccio più scontato è sicuramente quello dei due coniugi che, alimentati dal dolore della perdita del figlio, cercano in un altrove virtuale supporto, rapporti umani e distrazioni, cadendo in una trappola. Sicuramente più interessante risulta essere la storia di Ben, un ragazzino introverso, perfetto protagonista per un film di Gus Van Sant, che diventa vittima del profilo fake di due bulli. Il detective Mike assume un ruolo importante, in grado di sottolineare queste connessioni casuali. Egli diventa il perfetto collante della prima storia con la seconda, in quanto indaga sulla truffa ai due coniugi e si rivela il padre di uno dei teppisti. La terza vicenda si allaccia a queste tramite l’illusione da parte di una fotoreporter di voler salvare un camboy dal mondo delle chat erotiche grazie alla sua inchiesta. Il regista evita ogni ipocrisia nella scelta professionale di questo protagonista. La sua professione non è il frutto di una costrizione, ma una scelta di vita consapevole che risulta incomprensibile agli occhi di Nina.

L’invito del regista è quello di dimostrare la solitudine umana attraverso rallenti e un linguaggio estetico fortemente televisivo, che però eccede nella presenza di  i-phone, i-pad e computer nella messa in scena. Henry Alex Rubin riesce a rendere l’umanità dei suoi protagonisti al di là del frame. Il messaggio principale risulta utile: disconnettersi dal sistema virtuale per riappropriarsi di quei rapporti umani che necessitano di cure e fisicità. Tuttavia, l’analisi del regista risulta epidermica perché ancorata alla solitudine del singolo, senza addentrarsi nella contestualizzazione dell’era postmoderna e negli aspetti costruttivi che i nuovi media potrebbero acquisire.

Francesca Lampredi

Francesca Lampredi
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