Al Teatro Verdi di Pisa si rinnova l’annuale appuntamento coll’opera barocca, che questa domenica 9 dicembre riporterà in scena nientedimeno che la storia del teatro settecentesco. Il Dittico buffo napoletano, tanto peculiare nella denominazione (di origine controllata) quanto nella sostanza, nasce dall’humus culturale del teatro del XVIII secolo e ne testimonia due prassi peculiari: quella dell’intermezzo e del pastiche.
Il primo elemento di questo Dittico è appunto un intermezzo, La vedova ingegnosa di Giuseppe Sellitti. Gli intermezzi erano opere di carattere buffo o comico, di durata piuttosto breve, allestite all’interno di opere serie italiane nell’intervallo tra un atto e l’altro. Si tratta di un evento decisamente importante per la storia della musica, in quanto costituisce il primo germe di uno dei generi teatrali che in futuro godrà di maggior popolarità, vale a dire l’opera buffa.
La raison d’être degli intermezzi è di una semplicità disarmante: alleggerire il titolo serio che li ospitava. Per i nostri occhi moderni può sembrare un abominio, difatti ogni – seppur esile – parvenza di drammaturgia dell’opera veniva in questo modo annientata; tuttavia bisogna tenere ben presente quella che era la temperie culturale dell’epoca e come veniva inteso il teatro. Per l’uomo del Settecento (per lo meno fino alle ultime decadi del secolo) il teatro non è che un trattenimento. Senza dubbio di nobile lignaggio, indiscutibilmente colto, ma pur sempre un trattenimento, un disimpegno che non richiede sforzi d’attenzione. Una simile visione del teatro d’opera giustifica anche l’architettura del melodramma coevo, caratterizzata da quell’eterno avvicendarsi di numeri musicali e recitativi secchi: il pubblico, in questo modo, aveva facoltà di non dover seguire necessariamente l’intreccio, bastava ascoltare di volta in volta l’aria, o il duetto, o il concertato. L’intermezzo assolveva a questa funzione, forniva agli spettatori una serie di musiche brillanti, accattivanti, che si ascoltano volentieri, ma al contempo riusciva a catalizzare con insolita efficacia la concentrazione del pubblico, forse proprio perché offriva una costruzione elementare e direttamente funzionale al mero svolgimento della trama. Certi intermezzi godevano di tale popolarità, all’epoca, da avere persino più successo dell’opera seria che li ospitava, una popolarità rimasta invariata anche al giorno d’oggi: ognuno conosce (se non altro di nome) La serva padrona di Pergolesi, ma la memoria del Prigionier superbo del medesimo autore la conservano davvero in pochi.
L’altro genere glorificato dal teatro partenopeo – ma poi ripreso in tutto il mondo e anche in epoche decisamente posteriori – è il pastiche. Non si tratta del primo pastiche che viene rappresentato al Verdi in recenti anni, ad esempio nel dicembre 2015 è stato portato in scena il raro Catone di Handel, un timballo di certo più nobile e raffinato di questo verace Maestro di musica, ma pur sempre di timballo si tratta. Questo secondo elemento del Dittico è appunto un «pasticcio» che, analogamente al suo omonimo gastronomico, è composto da “avanzi”, scarti di lavorazione e quant’altro. Se potete fare un pasticcio con un po’ di uova sode del giorno prima, di carciofi già stufati e avanzi di pollo e tacchino, allo stesso modo i compositori del Settecento assemblavano pasticci musicali utilizzando lo scheletro di un’opera già esistente (la pasta brisè), ne cambiavano il libretto e poi procedevano ad aggiungere gli avanzi: qua un’aria di Pergolesi, un paio di Vinci, una sinfonia di Galuppi, un duetto di Jommelli ed ecco confezionato un nuovo titolo, il tutto grazie alla mancanza di una qualsiasi concezione di diritto d’autore.
Solitamente il procedimento del pastiche aveva luogo per mera convenienza: un cartellone un po’ disadorno, la necessità di dover rimpiazzare un titolo o il sempreverde far cassa. Sicuramente il secondo pannello del Dittico buffo napoletano nasce da quest’ultima esigenza. Nel 1752 venne rappresentata a Parigi la Serva padrona che fu la miccia responsabile dell’esplosione della cosiddetta Querelle des Bouffons. Si tratta di una questione che merita una trattazione decisamente esaustiva, impossibile da fornire in questa sede, basti perciò sapere che vedeva in contrapposizione il teatro italiano (specificatamente quello buffo) e quello francese. Dato che la questione era scottante, sulla bocca di tutti e non faceva altro che gonfiarsi di più ad ogni istante, e l’impresario Eustachio Bambini – responsabile dell’allestimento della Serva – decise proverbialmente di battere il ferro finché è caldo e fece approntare in brevissimo tempo il pastiche, genere amato e diffuso tanto quanto l’intermezzo, e come unico nome in cartellone indicò quello di Pergolesi, proprio per cavalcare fino in fondo l’onda della Serva. In realtà i brani pergolesiani sono soltanto un’aria e forse un duetto, il resto è frutto dei lombi di Sellitti, Auletta e altri autori della Scuola Napoletana. Inutile dirlo, il successo fu clamoroso. L’operazione svolta dal Teatro Verdi è quindi ancor più meritoria se si considera che i due titoli, qui cuciti assieme in un inedito dittico, sono una testimonianza viva e vitale delle origini del teatro d’opera così come lo conosciamo oggi.
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