Parliamo di Don Giovanni – parte I: “L’empio punito”

Burton Hatlen – docente di letteratura dell’Università del Maine – nel corso della sua carriera ha elaborato il concetto della «polla dei miti», vale a dire quell’insieme «della letteratura d’immaginazione» nel quale ci troviamo tutti collettivamente immersi, indipendentemente dal fatto che possiamo essere entrati direttamente in contatto con i testi stessi di questa letteratura. Un esempio che rientra perfettamente in questo contesto è la figura di Don Giovanni, che riveste una certa importanza nel cartellone lirico del Teatro Verdi di Pisa, apparendo per ben due volte: a gennaio nella versione – ben nota – di Mozart e questo mese proprio all’apertura di stagione nella prima veste operistica, quella de L’empio punito di Alessandro Melani.

La multiforme esistenza del mito di Don Giovanni è cosa ben nota per la platea del Verdi, che nel 2015 ha assistito alla rappresentazione del Don Giovanni di Giuseppe Gazzaniga, del Convitato di pietra di Giacomo Tritto, del Convitato di pietra di Giovanni Pacini e persino dello stesso Empio punito, sebbene di quest’ultimo titolo sia stata eseguita solo una selezione di brani. La rappresentazione integrale dell’opera di Melani fornisce la giusta cornice per poter estensivamente parlare non solo dell’opera che andrà a inaugurare la stagione odierna ma anche dello stesso mito di Don Giovanni.

Frontespizio del libretto originale dell’opera

La figura del seduttore attraversa trasversalmente la storia della cultura occidentale; proprio da questa materia informe e arcaica si è avuta un’emanazione che, nel corso del tempo, ha condotto all’ormai ben noto Don Giovanni Tenorio. L’origine della figura e del mito si deve ricercare nella tradizione popolare, nei racconti tramandati oralmente: come non associare ai connotati della storia attorno al fuoco i punti salienti della storia di Don Giovanni (l’individuo impenitente, l’intervento soprannaturale e il castigo divino)? Alcune versioni di queste antiche storie si tramandano ancora oralmente, tutte accomunate dal protagonista, un signorotto – di solito Conte – di nome Leonzio che commette l’errore fatale di dileggiare il teschio di un defunto. Uno dei primi esempi documentali di questa storia è il Promontorium malae spei di Paolo Zehentner del 1643, basato su una rappresentazione avvenuta nel 1615 a Ingolstadt. Nella prima metà dei Seicento fioriscono altri lavori sempre su questo tono, il più importante dei quali è senz’ombra di dubbio El burlador de Sevilla y convidado de piedra di Tirso de Molina, stampato anonimo nel 1630 a Barcellona.
Il Burlador è la fonte principale (ma non l’unica!) dell’Empio punito di Melani. Tra i due titoli trascorrono ben trentanove anni, periodo in cui Don Giovanni non solo acquisisce sempre maggior notorietà ma assume anche i tratti canonici che oggi ben conosciamo: il fascino del seduttore per eccellenza inizia ad irretire artisti e spettatori di Spagna, Italia, Francia – dove nel 1665 andava in scena il Don Giovanni di Molière – e mette piede persino in Inghilterra. Da notare che fino all’Empio punito, il soggetto non aveva (quasi) ancora conosciuto vita musicale. È appunto nel 1669 che “l’ingannatore di Siviglia” viene in contatto con il fertile terreno che gli garantirà lunga vita: l’opera.

I genitori effettivi dell’Empio punito sono il compositore Alessandro Melani, pistoiese, e Filippo Acciaiuoli, romano di nascita ma di famiglia fiorentina. L’accento sulla toscanità dei due non è casuale: all’epoca era il pontefice era Clemente IX, al secolo il pistoiese Giulio Rospigliosi, ed è quindi naturale che abbia attratto – per non dire convocato – artisti e intellettuali di area toscana. A Rospigliosi va non solo il merito di aver espressamente caldeggiato una collaborazione tra Melani e Acciaiuoli, ma di essere egli stesso uno dei sostenitori della realizzazione del progetto, assieme alla famiglia Chigi (toscana), alla famiglia Colonna, committente del’opera e che ospiterà la rappresentazione nel febbraio 1669, e alla regina Cristina di Svezia. 
Entrando nel merito del titolo, bisogna premettere che questo Empio punito altro non è che una riproposizione del Burlador de Sevilla in salsa tzatziki. Forse per non irritare un prezioso alleato come la Spagna, l’ambientazione ha subito un drastico spostamento spazio-temporale dalla Siviglia contemporanea all’antica Grecia, onde per cui anche i nomi dei personaggi vengono mutati: Don Giovanni diviene Acrimante (e canta con voce di soprano), il suo servitore non è Leporello o Pasquariello ma Bibi, Donna Elvira prende nome di Atamira, il corrispettivo del Commendatore è Tidemo, e così via. Si tratta naturalmente di una Grecia antiquaria senza alcuna pretesa di verosimiglianza (celebre il colpo di pistola esploso nell’Atto III), perfettamente tratteggiata da Giovanni Macchia nella breve didascalia che introduce il libretto dell’Empio nel suo saggio Vita avventure e morte di Don Giovanni: «È la curiosa trascrizione della vicenda di Don Giovanni in “stile d’opera”, in molli versi (ove Amore si scrive con la maiuscola, e pastorelle e principesse, servi e padroni parlano la stessa lingua) entro il quadro finto di una natura idilliaca e letteraria».

Due pagine del manoscritto di Alessandro Melani

L’ideatore dello spettacolo, del testo e delle macchine sceniche fu senza dubbio Filippo Acciaiuoli e sappiamo che all’operazione contribuì anche Giovanni Filippo Apolloni (quasi certamente è sua la versificazione del testo di Acciaiuoli), e non viene da domandarsi perché la famiglia Colonna abbia scelto di affidare il progetto di un allestimento tanto impegnativo proprio ad Acciaiuoli: il poeta è autore di un altro titolo che lega la Roma papalina del Seicento al Teatro Verdi di Pisa, vale a dire l’ormai celebre Girello, musicato da Jacopo Melani, pistoiese e fratello maggiore di Alessandro, opera commissionata proprio l’anno precedente dalla famiglia Colonna. Quella dell’Empio punito era quindi di un’operazione che puntava “sul sicuro”, dove venivano impiegati professionisti ben noti all’intellighenzia romana dell’epoca. Dopo il grande successo del Girello e della sua trasposizione come opera per marionette, Acciaiuoli aveva senz’altro deciso di puntare ben più in alto e la presenza contemporanea di mecenati di tale livello gli consentì di impiegare tutte le frecce che aveva al proprio arco per creare uno degli spettacoli più straordinari che si fossero mai visti fino ad allora. E c’è riuscito: comprendendo una nave che affonda, la barca di Carone, sei statue semoventi di cui una volante, una sessantina di figuranti e ben dodici cambi scena a vista, l’Empio punito è stato indiscutibilmente lo spettacolo più costoso del XVII Secolo (si parla di più di seimila scudi, equivalenti oggi a una somma a cinque zeri).
Nonostante l’opulenza della miseenscène (o forse proprio a causa di questa), abbiamo pareri discordanti sull’esito della rappresentazione: Cristina di Svezia, secondo quanto riportato dagli Avvisi di Roma, «lodò assai le musiche, le mutazioni delle scene et i balletti, ma parve che s’annoiasse alquanto della lunghezza dell’opera, a segno che domandatogli il cardinale Rospigliosi come piaceva a S.M. l’opera, gli rispose: È il Convitato di pietra», a dispetto di tutte le novità e il tentativo di camouflage di Acciaiuoli. Assai meno diplomatica la penna Salvator Rosa, che in una sua lettera datata 2 marzo 1669 scrive all’amico Giovan Battista Ricciardi: «Il venerdì scorso andai a sentire il castratissimo Convitato di pietra, il quale, e per il caldo della stanza, e per il tedio della solennissima coglioneria, m’alterò in maniera la testa e mi si accese così fortemente la bile, che son stato forzato a starmene a casa due giorni per digerirmi la rabia […] Vi giuro che spropositi simili non ne ho mai veduti, e pure è tutta operazione del nostro prelibatissimo signor Apollonio […]».

Dopo questa prima rappresentazione, l’Empio punito conobbe alcune repliche a Bologna e a Firenze, ma cadde ben presto nell’oblio e già nel XVII secolo non conobbe altre rappresentazioni. Le prime riprese da allora si attestano solo a partire delle soglie del 2000: nel 2003 (Lipsia), nel 2004 (Montpellier, in forma di concerto) e, come ricordato sopra, nel 2015 a Pisa, ma solo in una selezione di brani. La rappresentazione odierna, assieme a quella di poco precedente a Roma presso il Teatro di Villa Torlonia, figurano come due delle rarissime rappresentazioni integrali in forma scenica in epoca moderna e infondono nuova energia al mito, mai tramontato, di Don Giovanni.

lfmusica@yahoo.com

Luca Fialdini
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