PISA – Venerdì 24 gennaio, dopo sei anni di assenza, il Don Giovanni di Mozart ha fatto ritorno a Pisa, in un nuovo allestimento del Teatro Verdi e in coproduzione con la Fondazione Stiftung Haydn di Bolzano e Trento, il Teatro del Giglio di Lucca e il Teatro Goldoni di Livorno.
L’apertura del sipario ha fatto capire fin da subito due cose: che si tratta di una produzione di livello e, soprattutto, che è destinata a far parlare di sé. Non necessariamente in senso positivo. La visione che la regista Cristina Pezzoli propone allo spettatore è quella – usando le sue parole – di un «Circo Nero», al quale siamo introdotti da una coreografia che, se da una parte richiama palesemente le esibizioni di Loïe Fuller, dall’altra ha un legame davvero oscuro con quel che dovrà accadere da lì a poco sul palcoscenico (nelle note di regia è spiegato, ma senza leggerle è davvero ostico comprendere il significato di quanto viene proposto).
Le scene e i costumi di Giacomo Andrico sono splendidi (le prime anche di una certa complessità), e sono validissimi nell’evocare le suggestioni di un mondo circense intriso di visioni, in costante limbo tra realtà e immaginazione; di rara efficacia anche il disegno luci di Valerio Alfieri, che concorre a creare situazioni esteticamente interessanti.
Diversa è la questione circa il balletto: il corpo di ballo, costituito dal Nuovo BallettO di ToscanA e guidato dalla coreografa Arianna Benedetti, è eccellente e si dimostra estremamente duttile, camaleontico nell’adattarsi alle diverse – e molte! – situazioni in cui viene chiamato ad esibirsi. Il punto è che spesso e volentieri queste coreografie non solo non hanno nulla a che vedere con la scena (e sono quindi ingiustificate), ma talvolta distolgono troppo l’attenzione da ciò che accade o viene detto in scena. In Fin ch’han dal vino, una delle più interessanti espressioni delle tenebre mozartiane e momento cruciale per comprendere a fondo Don Giovanni, il protagonista canta l’aria in un cantuccio e tutto il resto viene riservato al ballo. Nell’opera esistono dei momenti specifici in cui il ballo è richiesto, se proprio lo si vuole estendere anche ad altri momenti, lo si deve fare con criterio.
Parlando di compagini, rimarchevole l’Orchestra Arché, ammirevole per compattezza e precisione (se si eccettua qualche perturbazione in settore corni), l’Arché ha saputo interpretare egregiamente la complessa partitura del Don Giovanni. Una menzione speciale la merita Federica Martinelli: ha dimostrato che esistono ancora timpanisti con il sangue nelle vene. Eccellente la direzione di Erina Yashima, che si è dovuta confrontare con una delle prove più dure per un direttore d’orchestra. Con semplicità, ha saputo fornire una lettura convincente del capolavoro mozartiano, avvalendosi di un gesto chiaro e contraddistinto da un carisma infiammato; ottima anche la scelta dei tempi, stilisticamente corretta e molto adeguata al canto.
Anche il cast vocale si è dimostrato all’altezza di questa dura prova, tanto sotto il profilo attoriale quanto sotto quello vocale. A questo proposito, si è riscontrata una singolarità: quando i cantanti si trovavano sul boccascena, la voce giungeva chiara e sonora ma, nel momento in cui si trovavano invece sul palco, questa giungeva stranamente ovattata. È forse possibile che questo derivi dalla scelta di eliminare la copertura delle quinte (che, appunto, erano a vista), e che quindi la resa vocale fosse inficiata da una – collaterale – dispersione del suono. Ciononostante, questo evento curioso non ha impedito di apprezzare l’interpretazione dei cantanti, a cominciare dal soprano Federica Livi, una Zerlina dalla meravigliosa vocalità e ben adatta al ruolo (nonostante la parte sia da mezzosoprano), ma dai modi troppo spicci per risultare di spessore. Ottima prova anche quella del baritono Francesco Vultaggio, un solido Masetto che promette una buona riuscita anche in ruoli maggiori; è un vero peccato che nella prima parte dell’aria Ho capito, signorsì sia andato totalmente fuori tempo.
Gradito il ritorno del soprano Raffaella Milanesi, già presente in stagione nell’applauditissimo Empio punito. Anche come Donna Elvira ha lasciato senz’altro un ottimo ricordo, grazie a un’interpretazione a tratti ironica ma molto sentita unita a una ineccepibile prestazione vocale: ciò che lascia fortemente perplessi circa il suo personaggio è il taglio registico che le è stato affibbiato: all’inizio dell’opera ci viene presentata come una delle Erinni che punta pure una pistola contro Don Giovanni, mentre nel finale intervento L’ultima prova dell’amor mio appare come candida suorina, una dicotomia fin troppo didascalica per essere convincente.
All’interno del cast sono presenti altri due ritorni accolti con calore, quelli di Sonia Ciani e di Nicola Ziccardi, che vestono rispettivamente i panni di Donna Anna e Leporello. Sonia Ciani, già protagonista di quella gloriosa Pia de’ Tolomei del 2017, si conferma interprete di valore: la sua è una Donna Anna autentica, portata sulla scena apparentemente senza filtri. Dolente, tragica, terribile nel furore, delle tre figure femminili questa è senz’altro la più complessa, ma Sonia Ciani ha saputo esaltarne le sfaccettature, anche in virtù della sua squisita vocalità.
Nicola Ziccardi, nella memoria del pubblico del Verdi come Taddeo nell’Italiana in Algeri, era già sulla carta un buon Leporello e la recita non ha potuto che confermare le alte aspettative: le sue doti di attore – in particolare per quanto riguarda i ruoli comici – sono ben conosciute, ma grazie a questo ruolo si sono potute apprezzare maggiormente le sue doti di cantante. Ziccardi, oltre al segno lasciato nella lunga aria del catalogo, ha saputo emergere nettamente anche negli assiemi e nei concertati, cogliendo il vero spirito di Leporello che è sì “spalla comica”, ma brilla anche di luce propria.
Eccellente la performance di Don Ottavio, qui interpretato dal giovane tenore Diego Godoy. Da un punto di vista strettamente vocale, la sua è senza dubbio l’esibizione più riuscita: il timbro prezioso e la capacità di calibrare sempre e con sicurezza il canto lo rendono un tenore mozartiano da cui, in futuro, ci si aspetterà molto. Forse è ancora un po’ rigido nella recitazione, data la giovane età deve ancora smaliziarsi, ma la strada imboccata è senza dubbio quella giusta. C’è da augurarsi che continui così.
Il basso Paolo Pecchioli, invece, dimostra una volta di più il vecchio detto «non esistono piccole parti, solo piccoli attori»; quando è in scena, nei panni del Commendatore, tutti gli occhi sono solo per lui e nelle cupe note della sua voce sonora si scorge l’ombra del Tartaro. Piuttosto infelice la decisione di farlo muovere come un fantoccio meccanico, una scelta che ha spento buona parte del risultato scenico.
Dulcis in fundo, il baritono Daniele Antonangeli, vale a dire Don Giovanni in persona. Di altissimo livello tanto come cantante quanto come attore, si è reso protagonista di un’interpretazione intensa, salace e intelligente, un vero e proprio centro magnetico proprio come il personaggio di cui è chiamato a impersonare le spoglie mortali. Da ultimo, ma non ultimo, il Coro Ars Lyrica: ottimo come sempre, ma avrei sperato in una presenza più massiccia.
A livello tecnico e musicale, l’allestimento non solo funziona bene, ma è buono. Il punto debole di questo castello, che si rivela se non con le fondamenta d’argilla per lo meno con una grossa crepa nelle mura, è la regia. Non si discute il fatto che sia ben realizzata o che contenga spunti interessanti, il problema è rappresentato dal fatto che è errata l’idea alla base dell’intera regia. Don Giovanni e il mondo circense hanno davvero poco in comune e questo è dimostrato dalle frequenti forzature operate sull’opera, tra cui l’impiego dei microfoni in alcuni dei recitativi secchi, il siparietto in puro spirito stand-up comedy tra Don Giovanni e Leporello, i guantoni da boxe, l’altalena su cui muore – in modo inglorioso, peraltro – il Commendatore, gli immotivati balletti utili solo ad appesantire una delle più belle opere mai scritte, l’obbligare una cantante a compiere un esercizio ginnico mentre sta cantando e la parentesi para-blasfema e francamente inutile della croce usata come tavola e del non completamente eseguito stupro di una suora sulla medesima (dopo tre ore d’opera è pleonastico sottolineare ancora la depravazione del libertino per eccellenza), per non fare che qualche esempio. Va bene proporre una rilettura, anche forte, ma bisogna essere in grado di farlo; il rischio è di osare con scelte provocatorie che poi si rivelano sterili. Senza contare che la regia è così impegnata in provocazioni da perdere di vista l’elemento costitutivo del mito di Don Giovanni, che è totalmente assente nell’allestimento pisano: la sensualità.
L’idea dei tappeti sonori elettronici è uno spunto interessante, ma applicato con troppa frequenza e a volte in modo troppo invasivo: buona l’intuizione del frinire dei grilli nella scena della seduzione di Zerlina, fuori luogo i rintocchi stile Arancia meccanica durante il pestaggio di Masetto (che rimarrà uno dei momenti di maggior soddisfazione dell’opera) e troppo insistenti nella scena del cimitero. Opinabile anche l’ossessività nel calcare la mano sul lato comico: il Don Giovanni è indicato come «dramma giocoso», ma di giocoso, a ben vedere, non ha poi così tanto. Certo, ci sono gli interventi di Leporello e i momenti più leggeri affidati agli arcadici Masetto e Zerlina, ma si tratta di umorismo più che di commedia. Una risata a denti stretti. Invece si è molto insistito nel voler strappare risate allo spettatore, nella maggior parte dei casi aggiungendo dettagli non previsti dal libretto o dalla partitura. Mozart e Da Ponte erano due “uomini di mondo” e hanno infarcito i libretti della trilogia italiana di ogni tipo di doppio senso e riferimento sessuale (a volte, senza nemmeno preoccuparsi troppo di edulcorarlo), perché non basarsi su questo materiale? Perché volersi sostituire a chi il Don Giovanni l’ha creato per davvero? Fondamentalmente è questo il “peccato originale” di Cristina Pezzoli: non avere rispetto del lavoro di Wolfgang Amadeus Mozart e di Lorenzo Da Ponte, andando ad alterare qualcosa che non necessita di alterazioni. Come già detto prima, le riletture forti si possono – anzi, si devono – fare, ma senza tradire lo spirito dell’opera. Inoltre il fatto che la Pezzoli non sia uscita al termine della rappresentazione, è una sorta di ammissione di colpa, che può essere letta come una mancanza di fiducia nel proprio lavoro. Ma se nemmeno chi ha creato lo spettacolo ha fiducia in esso, perché dovrei averne io?
Photocredit: Imaginarium Creative Studio
lfmusica@yahoo.com
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