PISA – In occasione del Giorno della Memoria la città di Pisa ha in programma numerose iniziative che si concluderanno il 30 gennaio. Due di questi appuntamenti verteranno sulla figura di Frida Misul, nata a Livorno il 3 novembre 1919 e figlia di ebrei praticanti. Sopravvissuta ad Auschwitz grazie alle sue doti nel canto lirico, Frida si è fatta portavoce degli orrori della Shoah lasciandoci in eredità il suo Diario inedito del Lager.
Il 29 gennaio alle ore 21 si terrà presso la Gipsoteca di Arte Antica lo spettacolo diretto da Piero Nissim “Le canzoni di Frida“; mentre il 30 gennaio alle ore 10 si terrà presso l’Aula magna del Dipartimento di Filologia Letteratura e Linguistica la conferenza di Liliana Picciotto Fargion, membro del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, sul tema “Donne, Shoah, Resistenza“, nella quale verranno presentati i seguenti volumi: Canzoni tristi e Il diario inedito del Lager di Frida Misul e Per Frida Misul. Donne e uomini ad Auschwitz, a cura di Fabrizio Franceschini.
LA STORIA DI FRIDA MISUL
La storia personale di Frida Misul si intreccia in modo indissolubile con gli eventi del suo tempo. Qualche mese prima dell’Armistizio Frida e la sua famiglia sono costretti a lasciare la propria casa e a trasferirsi ad Antignano a causa dei frequenti e massicci bombardamenti alleati che stavano mettendo a repentaglio la vita dei civili a Livorno. Questa situazione si aggrava dopo l’8 settembre 1943, quando la città viene presidiata dai reparti della Wehrmacht i quali, il 12 settembre 1943, istituiscono la “zona nera”. Questa misura imponeva per decreto lo sgombero completo del porto e l’evacuazione del centro urbano. In questo contesto di guerra e nonostante le limitazioni imposte agli ebrei italiani in seguito alla promulgazione delle Leggi razziali del ’38, Frida continua a coltivare la sua passione per il canto lirico, sopportando l’umiliazione di dover cambiare nome per potersi esibire. Solamente dopo la morte della madre, sopraggiunta il 13 settembre 1943, sembra rinunciare alla sua passione per la musica poiché, da figlia primogenita, sente la responsabilità di dedicarsi completamente al padre e alle sorelle minori. È poi tramite una conoscente che Frida ritorna a cantare grazie all’insegnante di musica Elena Mancini, che fortemente la volle come allieva. Eppure, pur dopo averla apprezzata ed aiutata ad esibirsi, è l’insegnante che tradisce la giovane Frida, convincendola ad andare in questura per chiedere un permesso straordinario di cui la giovane necessitava per entrare nella “zona nera” di Livorno. Questa mossa falsa rappresenterà la sua condanna: Frida viene arrestata in quanto ebrea e quindi “ospite sgradevole”. Da questo momento in poi, fino alla liberazione, la giovane è costretta a subire indicibili sofferenze. Inizialmente Frida viene portata al campo di smistamento di Fossoli dove resterà fino al 16 maggio 1944, giorno in cui dovrà salire sul convoglio numero 10 stipata insieme ad altre 800 persone, con destinazione finale Auschwitz. Nelle pagine del suo diario Frida descrive in maniera lucida e potentissima le ingiurie, le offese, le fatiche, le sperimentazioni sadiche e perverse, le sevizie corporali e psicologiche che lei e le altre prigioniere sono costrette a subire quotidianamente, che la portano alla perdita definitiva e violenta dell’innocenza giovanile: «Avevo vissuto fino all’età di 20 anni credendo fermamente nella bontà del mio prossimo, amando la natura, nutrendo nell’animo un ideale gentile, un dolce sogno di arte. Tutto si interruppe in modo violento e orribile. Tutto ho provato, spiritualmente e moralmente: ho conosciuto lo spasimo infinito della separazione dalle persone più care, ho provato le umiliazioni più gravi, ho sofferto la fame, la sete, il freddo».
Quella che emerge dal diario è la totale assenza di umanità dei tedeschi: «Gli aguzzini tedeschi non furono soltanto degli assassini spietati e senza cuore, ma degli esseri inqualificabili. Nel loro animo perverso si annidavano mille perfidie, mille crudeltà che sapevano mettere in atto in ogni maniera». Ma nonostante tutto il canto, sprazzo di salvezza. Il primo episodio menzionato nel diario in cui Frida riesce a salvarsi la vita (e a salvare anche quella di una compagna) grazie alla sua voce è quello dell’infermeria.
Un giorno, ricoverata a causa di una brutta polmonite e della nefrite, fa conoscenza con un’altra paziente italiana, Giuditta di Veroli. Ogni volta che il medico delle SS deve visitarle, entrambe hanno il terrore di essere selezionate per la camera a gas. Così sotto consiglio della dottoressa decidono di tornare a lavorare. Mentre le due donne stanno varcando la soglia dell’infermeria, la dottoressa chiede a Frida di cantare (dato che le era arrivata voce in merito alle doti della donna), e per volere delle compagne ricoverate inizia a cantare “Mamma”: «Per me fu una fitta al cuore perché mi ricordava la mia povera mamma, però cantandola, la cantavo anche alla mia mamma che ero certa in quel momento di lassù dal cielo l’avrebbe ascoltata».
Proprio in quel momento sopraggiunge il medico delle SS, il quale le ordina di cantare ancora, e Frida intona la Serenata di Schubert. Dal giorno seguente alle due donne viene assegnato un lavoro lontano dal freddo e dalle percosse in modo da permettere a Frida di esibirsi la domenica di fronte alle SS e le Kapò. Le due amiche vengono assegnate al block situato accanto al crematorio, con il compito di raccogliere, selezionare e rammendare i vestiti che, lasciati da chi entrava nelle camere a gas, dovevano poi essere spediti in Germania: «Questo lavoro però mi riuscì moralmente più pesante e più penoso, quando seppi che quei mucchi di biancheria, i vestiti che rammendavamo, venivano tolti da quei corpi che venivano condotti nelle camere a gas. lo cucivo e cucivo, bagnando di lacrime cocenti quei miseri abiti di quei poveri sventurati. Dal pensiero delle indicibili sofferenze imposte alle povere vittime; da quelle povere stoffe brutalmente lacerate sembrava partisse all’indirizzo del carnefice la più terribile delle accuse e la più giustificata delle maledizioni».
Se da un lato, nel diario, emergono i dettagli delle brutalità e delle violenze che pervadevano ogni angolo del campo, affiorano al contempo i ricordi del legame fortissimo che si era creato tra le compagne di baracca: «La domenica mi veniva a prendere qualche Kapò tedesca, oppure polacca, per farmi cantare dinanzi a loro quello che più piaceva loro. In cambio mi davano qualche spicchio di aglio, una cipolla, oppure un pezzo di pane, che al rientro nella mia baracca dividevo subito con le care amiche di sventura, fra le quali Giuditta l’amica del cuore, che era per me un’amica inseparabile».
Un altro momento in cui emerge ancora la potenza del canto avviene durante la detenzione di Frida nel campo di Villistat. Qui Frida cantando riesce a far commuovere una spietata Kapò la quale, dopo averla sentita cantare, le si accosta nel letto e le dona un pezzo di pane e carne. «Ne rimasi talmente stordita ché non credevo che la mia musica le avesse procurato nell’anima un po’ di pietà per me. Alla svelta chiamai le mie compagne, e divisi in otto parti quella fetta di pane e carne che ci sembrò un buon auspicio per il nuovo anno».
Finalmente poi, dopo aver trascorso diversi penosi mesi anche nel campo di Theresienstadt, arriva la liberazione. L’Armata Rossa riesce ad entrare e a liberare i prigionieri del campo il 9 maggio 1945 e da quel momento inizierà per Frida, come per gli altri sopravvissuti, il lungo e impervio viaggio verso casa. Giunta a Livorno sarà una delle prime donne sopravvissute a trovare la forza ed il coraggio di raccontare in forma scritta la sua esperienza, auspicando che: «Specialmente i giovani, leggendo queste mie righe, sentano la responsabilità di vigilare ed impedire in ogni modo che certi errori ed orrori siano più ripetuti. È necessario ricordare e capire ciò che accadde molti anni fa, affinché nessun popolo sia più condannato a vivere una simile tragedia».
Ilaria Vallerini e Luca Marchetti
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